Piangere sotto i meli

di Pietro de Paoli
in “La Croix” del 12 aprile 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

Molti, come me, in queste ultime settimane, sono stati colti da un profondo senso di tristezza e di
fatica. Questo stato d’animo e di cuore mi ha portato a ritrovare un brano che mi aveva molto
colpito durante la prima lettura del Journal d’un théologien, di Yves Congar.

L’autore vi racconta come, all’inizio dell’autunno 1956, dopo aver passato gli anni precedenti a tentare di conservare il diritto di pubblicare e di insegnare, si ritrovi “esiliato” a Cambridge. Là fa l’esperienza di un totale abbandono e scoraggiamento. È stretto da un immenso sentimento di solitudine, d’impotenza, d’inutilità, fino a pensare che la sua vita sia un fallimento totale.

Così, un giorno, durante una passeggiata sotto il cielo grigio e basso di quel terribile fine english
weather, come dicono i nostri amici britannici, si lascia cadere sotto un albero e, nella pioggia sottile ed incessante, “si ritrova a piangere amaramente (…) Dominus autem assumpsit me: queste lacrime, Dio non le sentirà?”.

Quell’uomo ha 52 anni; è uno dei teologi più brillanti del suo tempo, ha resistito alla prova della prigionia in Germania, ed è ora ridotto alle lacrime e alla sensazione del fallimento. Sì, la Chiesa può far soffrire, può far soffrire crudelmente i migliori dei suoi figli e delle sue figlie.

Se mi soffermo su questo episodio della vita di Yves Congar, è perché il periodo della vita della
Chiesa in cui si situa forse ha delle somiglianze con il nostro – o almeno, questa è la speranza che
nutro. Il 1956 è la fine del pontificato di Pio XII, un periodo in cui sembra, allora, secondo tutti gli osservatori, che la Chiesa cattolica sia in pieno “irrigidimento” dottrinale e disciplinare.

Da quasi dieci anni, le condanne piovono sui ricercatori, sui teologi, su iniziative come quelle dei preti operai in Francia. È di nuovo una sorta di grande crisi antimodernista che percorre la Chiesa, in assoluto scollamento con lo slancio di libertà e di energia che ha conquistato i popoli all’uscita dalla guerra.

Perché ricordare il futuro cardinal Congar in lacrime sotto il melo? Perché, appunto, lui non sa – e nessuno sa – che sarà chiamato a svolgere un ruolo di primissimo piano nel concilio Vaticano II, di cui nessuno sa ancora che sarà convocato. Quell’uomo crede finita la sua vita, mentre invece essa sta per cominciare. Quell’uomo crede che il suo lavoro intellettuale sia perduto, e invece è solo sepolto, come il chicco di grano seminato nella terra, e nessuno sospetta ancora la messe che esso darà.

In questi tempi di afflizione, mi volgo verso padre Congar, e ricordo che il tempo delle lacrime deve anche essere quello della semina. Non è una colpa piangere allo spettacolo della nostra Chiesa che pare irrigidirsi, almeno nelle prese di posizione di qualcuno degli appartenenti alla gerarchia. Sarebbe una colpa mollare, lasciar perdere tutto. La Chiesa cattolica non appartiene a Roma, appartiene a Cristo che ne è il capo, appartiene a noi che ne formiamo il corpo.

In questa prospettiva, i problemi sollevati da padre Congar – posto dei laici, collegialità, dialogo
ecumenico… – sono ancora d’attualità, perché sono il mezzo di rendere il grande corpo della Chiesa vivo e in comunicazione. In comunicazione con il mondo per annunciargli il Vangelo, per far risuonare il tamburo della Buona Novella. Ma ci sono nuove sfide; mondializzazione, ripartizione delle risorse della terra, salvaguardia dell’ambiente. Bisogna alzare gli occhi; né le domande né le risposte si trovano nei messali. E neanche nei dogmi. Forse saranno nel lavoro dell’intelligenza e dell’amore, se accettiamo di farlo.

Io non proclamo un ottimismo beato, né una Speranza rinviata alla fine dei tempi. Oggi, in questo messaggio, coltivo una speranza ragionevole: quella che la crisi in cui ci troviamo sia il preludio di un grande soffio di rinnovamento, forse il secondo soffio di quel Concilio così denigrato, quasi condannato da alcuni, mentre la sua attuazione è appena cominciata, mentre ci siamo appena resi conto del tesoro che i padri conciliari ci hanno lasciato.

Per questo, bisognerà riuscire a spezzare la grande follia egotista che ci attraversa per ridiventare veramente cattolici. Perché è quella la vera posta in gioco, ritornare alla sorgente della nostra cattolicità, cioè alla vocazione universale. “Andate, da tutte le nazioni, fino all’estremità della terra…”, ecco la nostra identità. Noi, cattolici, non ci situiamo nella logica di un piccolo resto di puri e duri che dovrebbero resistere eroicamente ad un mondo ostile. Siamo dei sanguemisti, dei meticci, cittadini del cielo e della terra.

Sì, piangiamo pure, ma poi asciughiamoci le lacrime ed occupiamoci di quello che ci compete: cioè
il compito che Dio ci affida, la preoccupazione e la cura dell’umanità intera.