In nome della foresta

di Carlo Cascione
da http://www.peacereporter.net/

“Vedere i pesci morire annaspare senza acqua non é un bello spettacolo”. Antonio de Veira, un piccolo contadino amazzonico, ci mostra il fiume confinante con la sua proprietà e spiega: ¨Io ho lasciato la vegetazione sulla riva, ma i proprietari dei terreni più a nord non hanno fatto lo stesso, così ogni estate il fiume si prosciuga e muoiono migliaia di pesci¨. Siamo in Amazzonia, nello stato di Rondonia, a pochi chilometri dal confine con la Bolivia. Il clima sta cambiando, anche qui.

Quella di Antonio è una delle 50 famiglie che abitano nella comunità di Cachoeira do Samuel. Qualche anno fa erano più di settanta: ¨Piano piano stanno iniziando a vendere, anche se per legge non potrebbero. Si trasferiscono in città, dove però non trovano lavoro, a volte le loro figlie sono costrette a prostituirsi¨. Antonio per ora resiste, anche se vivere della terra non è facile: i piccoli produttori vendono per una miseria il frutto di giornate di fatica.

Molti preferiscono abbandonare: ¨Per noi è una sconfitta ogni volta che un contadino vende, perché siamo noi contadini che coltiviamo la terra, mentre i grandi possidenti quasi sempre tagliano tutti gli alberi per farne pascolo o al massimo impiantano una monocoltura”. Durante il percorso per arrivare qui, Antonio ci ha indicato gli appezzamenti che appartengono agli allevatori: enormi distese brulle, decine di buoi e vacche.

¨Questo qui – ha detto a un certo punto – è del giudice che si occupa di delitti ambientali nella nostra provincia – era l’unico in cui si vedeva una vegetazione fitta – ma è solo una piccola fascia, quella che dà sulla strada. Il resto è totalmente distrutto. Lo abbiamo anche denunciato, ma gli stessi poliziotti sono proprietari terrieri, così come i funzionari dell’istituto che si occupa di tutelare la foresta. Sapete cosa mi ha detto il magistrato quando sono andato a denunciare il caso del giudice? ‘non posso indagare, è un mio superiore”.

La situazione è un po’ migliorata negli ultimi due o tre anni: il governo ha iniziato a fare controlli, anche grazie allo sviluppo di un sistema di monitoraggio satellitare. La moratoria sulla soia prodotta in Amazzonia (del 2006), promossa da diverse Ong e sostenuta dall’Unione Europea, ha contribuito positivamente. “Ma c’é tanto lavoro da fare ancora. E soprattutto bisogna farlo adesso. Non c’è tempo da perdere. I nostri figli e i nostri nipoti pagheranno il prezzo della nostra irresponsabilitá¨.

Antonio è proprietario di venti ettari di terreno. Secondo la legge brasiliana, in almeno metà del terreno devono essere piantati alberi. Il tempo per mettersi a norma è di trent’anni dal momento dell’acquisto. Il proprietario precedente del terreno di Antonio aveva raso al suolo quasi tutto: ¨Ma non è solo una questione di legge, noi della comunità ormai sappiamo qual è il ruolo della foresta nell’ecosistema globale e vogliamo preservarla. Ma bisogna anche portare il pane a casa¨. Ci mostra gli appezzamenti, prima brulli, dove ha iniziato a piantare alberi da frutto: banane, cocco, açai, cupuaçu, castanha do pará. Diserbare in piena foresta, mi fa capire, è un’impresa titanica, soprattutto se non si hanno a disposizione sostanze chimiche.

A parte questo, piantare alberi non rende, specie nei primi anni: ¨In molti casi, anche facendo gli innesti, devo aspettare una decina d’anni prima che inizino a dare frutti, e intanto?¨. Il problema principale in Amazzonia è che un terreno senza alberi (da dedicare al pascolo o alla soia) vale oggi più che un terreno con la foresta intatta. Antonio ha un’idea per invertire questa tendenza: ¨Se trovassimo un’associazione o un gruppo di persone, tra tutti quelli che si dicono preoccupati per la sorte della foresta, che ci potesse fornire i mezzi tecnici e finanziari per riforestare in maniera equilibrata sarebbe perfetto. Noi potremmo mangiare e la foresta sarebbe salva¨.