Chi decide sulla ricostruzione?

di Pierluigi Sullo
da www.carta.org

Un mese dopo il terremoto dell’Irpinia, a fine anno del 1980, si tenne un’assemblea dei Comitati popolari nati in tutti i paesi del «cratere». Luoghi dove la partecipazione cittadina non era gran che forte, per tradizione, grazie al clientelismo dei partiti dominanti nell’Alta Irpinia e nella Valle del Sele: la Democrazia cristiana [Ciriaco De Mita] e il Partito socialista [Carmelo Conte].

Però il contagio delle migliaia di volontari dei sindacati, delle organizzazioni di studenti, delle associazioni che erano accorsi, e che furono decisivi per superare quel primo mese di inefficienze dei soccorsi di Stato, avevano aiutato a rinsaldarsi le reti familiari e paesane, già molto solide ma ferite dai lutti e dalla perdita di interi paesi.

All’assemblea c’erano centinaia di persone, che discussero di come si sarebbe dovuto ricostruire. Solo sei mesi dopo, i Comitati popolari erano stati sconfitti: il governo aveva affidato l’enorme quantità di denaro ai sindaci, gli organizzatori delle clientele. Corruzione, cooptazione, promesse ottennero il risultato che si può ammirare facendo una gita tra Laviano e Conza della Campania: «new town» di villette in puro stile lombardo-veneto, autostrade inutili, zone industriali costruite e subito abbandonate, edifici pubblici giganteschi grazie alla regola per cui al progettista andava il 10 per cento del valore dell’opera.

E fuga degli abitanti. Conza, per l’appunto, fu abbandonata in cima alla sua collina e interamente ricostruita a valle, una mini-Brasilia le cui palazzine affondavano i pilastri nel letto di un fiume in secca, anche se non poi tanto: le cantine si riempirono subito di acqua. Un altro paese, Valva, fu invece ricostruito nel modo opposto, grazie all’ostinazione dei suoi abitanti e dell’allora sindaco del Pci, Michele Figliulo: si rifece il paese com’era, utilizzando la memoria degli anziani e le foto di famiglia, pezzetto per pezzetto. Artigiani e muratori locali, invece che imprese del nord, si misero al lavoro, il tutto costò molto meno che altrove e soprattutto la gente ritrovò la casa collettiva.

In Abruzzo è il momento dell’emergenza, bisogna ricoverare le persone, capire subito quali case siano ancora abitabili, «mettere in sicurezza» quelle pericolanti, e così via. E per una volta, più o meno, sembra che la famosa «macchina dei soccorsi» sia stata efficace, anche se non pare che i sistemi di Protezione civile della Regione Abruzzo fossero davvero funzionanti [censimenti di chi sta dove e di cosa ha nel caso bisogno, punti di raccolta, magazzini con i beni di prima necessità…].

Eppure il Grande Clown, quello che invita la gente dell’Aquila ad andare negli alberghi della costa perché «ci sono le vacanze di Pasqua ed è tutto pagato dallo Stato», ha già gettato il suo macigno sulle rovine della città. Tutti i giornali ne parlano, ed è questo appunto l’effetto che Berlusconi voleva ottenere: ci si schiera pro o contro l’idea di ricostruire altrove, come una grande Conza della Campania o una Milano2, l’antica capitale dell’Abruzzo.

Ma il punto è: chi dovrà decidere della ricostruzione, quando – molto presto – verrà il momento di immaginare il futuro? Il presidente della Regione, Chiodi, ha già detto, della «new town», «parliamone», e negli occhi di costruttori e immobiliaristi già brilla, come succede a Paperone, il simbolo del dollaro. Credo dunque che reti sociali come l’Abruzzo social forum o le associazioni, la società civile organizzata e la politica non corrotta dell’Abruzzo si dovranno presto preoccupare – come ha scritto Renato Di Nicola nel quotidiano on line di Carta – di far sì che la partecipazione dei cittadini faccia della ricostruzione qualcosa di diverso dall’astratta, affaristica e autoritaria prospettiva buttata lì da Berlusconi.

E partecipazione significa prima di tutto conoscenza. Tra i tanti appelli e le tante raccolte di fondi sarebbe opportuno, quanto prima, attrezzarsi perché competenze, studiosi, urbanisti e storici di tutto il paese si mettano a disposizione della società abruzzese più viva, quella che ha impedito il terzo traforo del Gran Sasso e salvato l’acqua pubblica, e anche perché associazioni e reti abbiano anche i mezzi finanziari per organizzare la partecipazione e progettare un ricostruzione del tutto differente da quella dell’imprenditore edile [tra le altre cose] che presiede il consiglio dei ministri.