THAILANDIA, L’ESERCITO APRE IL FUOCO

di Mario Braconi

Era prevedibile ed é successo. Dopo che da due giorni anche i carri armati avevano fatto la loro comparsa per le strade di Bangkok, l’esercito ha usato per la prima volta armi vere. In rappresaglia i militanti hanno spinto pesanti autobus di linea contro i soldati, e il conto finale parla di due morti sul campo e decine di feriti – sembra un’ottantina – da entrambe le parti. L’assalto al ministero dell’Educazione, dato alle fiamme con bottiglie molotov, ha provocato nuove cariche in serata. “Finora abbiamo usato misure blande”, ha dichiarato un portavoce dell’esercito. “Ma se sarà necessario passeremo a quelle più forti”. Così il Primo Ministro Abhisit Vejjajiva tenta di dare concretezza alle minacce di un maggior rigore nei confronti dei dimostranti in camicia rossa, che hanno messo così gravemente in imbarazzo il suo governo impedendo lo svolgimento del meeting dell’ASEAN che si sarebbe dovuto tenere in una struttura alberghiera sulla spiaggia di Pattaya.

Per il momento sembra che l’esercito, pur essendo un alleato strategico del premier, abbia ben poca voglia di collaborare: secondo le voci dei giornalisti stranieri della zona, i militari hanno affrontato la folla rosseggiante (fino a 100.000 persone), armati più di dispositivi elettronici per fotografarli che di manganelli per “convincerli” a ritirarsi; e c’è anche chi li ha visti indossare le camicie rosse simbolo della protesta sopra l’uniforme. Del resto, come nota il corrispondente locale della BBC, Abhisit è in una posizione oggettivamente difficile per invocare misure drastiche contro i dimostranti, che si riconoscono nel Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura o UDD (United Front for Democracy Against Dictatorship), visto che non un processo di libere elezioni, ma una protesta simmetrica da parte della fazione avversa (di estrema destra) gli ha aperto le chiavi del “palazzo del potere” il 17 dicembre del 2008.

Verso la fine dello scorso anno, infatti, la Thailandia si trovava in una condizione di stallo politico provocato (come nel 2006) dai membri dell’Alleanza Popolare per la Democrazia o PAD (Peoples’ Alliance for Democracy), un gruppo eterogeneo di monarchici e rappresentanti della borghesia imprenditoriale cittadina che ha avuto in ruolo chiave nella destituzione del precedente primo ministro tailandese Thaksin Shinwatra, deposto da un colpo di stato militare nel 2006 ed attualmente in esilio in una località imprecisata dell’Asia, dalla quale in questi giorni galvanizza le “camicie rosse” con filmati trasmessi via internet.

A dicembre del 2008 i militanti del PAD, indossando le loro caratteristiche camicie gialle (colore che in Thailandia rappresenta la fedeltà al re), manifestavano contro il Partito del Potere del Popolo o PPP, allora al governo, considerato un fantoccio sotto il quale si nascondeva la formazione politica Thai Rak Thai (ovvero “I Tailandesi amano i Tailandesi”), fondata da Thaksin, tycoon della telefonia e primo ministro, bandita dopo il colpo di stato. Con le camicie gialle che, dopo un assedio di tre mesi ai palazzi dell’esecutivo, avevano occupato i due aeroporti di Bangkok, mettendo in ginocchio il turismo, la Corte Costituzionale tailandese proclamava l’illegalità del PPP e l’interdizione dei suoi membri dai pubblici uffici per cinque anni; fu allora che alcuni fedelissimi di Thaksin passarono all’opposizione, consentendo al partito Democratico di formare un nuovo governo, senza passaggi elettorali. Così nasce l’esecutivo presieduto dall’economista Abhisit Vejjajiva, piacente cittadino britannico con studi ad Eton ed Oxford.

Poiché Abhisit è andato al potere grazie all’ondata di proteste (illegali) inscenate dalle camicie gialle e culminate con l’assedio agli aeroporti, gli risulta difficile mostrarsi intransigente nei confronti dei sostenitori dell’UDD; ricordiamo che il premier ha nominato Ministro degli Esteri Kasit Piromya, aperto sostenitore del PAD e delle sue discutibili manifestazioni – il partito Democratico, infatti, non è ufficialmente legato ad alcuno dei due movimenti.

Ora Abhisit sta alzando la voce: dopo aver arrestato Arisman Pongruengrong, leader dei sostenitori del primo ministro deposto Thaksin Shinawatra, ha proclamato lo stato di emergenza, che prevede la possibilità di vietare gli incontri tra più di cinque persone, la censura dei mezzi d’informazione e l’impiego dell’esercito per dar man forte alla polizia nel mantenimento dell’ordine. In un video messo a disposizione sul sito BBC è possibile vedere una moltitudine di persone attaccare a colpi di spranghe e mazze da baseball la Mercedes scura nella quale la folla inferocita riteneva si trovasse il primo ministro, nonostante gli inviti a mantenere la calma da parte del guidatore e del passeggero, poi costretti a fuggire sulla berlina semidistrutta.

Ad un certo punto, è anche possibile vedere un uomo della sicurezza estrarre un’arma automatica per poi nasconderla in modo molto professionale agli occhi del reporter: segno, questo, che la situazione rimane incandescente e che, nonostante la simpatia dimostrata dai soldati nei confronti dei manifestanti (nel video si possono vedere camicie rosse sventolare allegramente le loro bandiere su un tank e scherzare con i soldati), il rischio di incidenti gravi sia tutt’altro che remoto.

Del resto, dietro la contrapposizione tra camicie gialle e rosse sembra sia possibile ricostruire l’antagonismo tra due classi all’interno del Paese: da un lato il ceto imprenditoriale e cittadino, generalmente favorevole a Abhisit Vejjajiva, e dall’altra il ceto rurale povero, che ha ricevuto benefici dalle misure populiste messe in atto da Thaksin in cinque anni di governo. Che il governo Abhisit abbia dovuto pagare pegno ai militari per il loro supporto è stato evidente fin dai suoi primi giorni di vita. A gennaio, alcuni osservatori hanno fatto notare come il colto e fotogenico Abhisit, nonostante la promessa di traghettare il paese al di là delle contrapposizioni tra le fazioni, abbia messo subito in atto una netta svolta militarista e reazionaria: emblematico a questo proposito il caso il caso di un numero imprecisato di rifugiati birmani di etnia Rohingya (una minoranza musulmana), che l’esercito tailandese ha arrestato e poi rimesso in mare su barche senza motore senza cibo o acqua, causando, secondo le Marine Indonesiana ed Indiana, la morte di cinquecento persone.

Come spiega il Washington Post, Abhisit ha dapprima tentato di insabbiare il caso, sostenendo la totale innocenza dei militari, salvo poi, sull’onda montante dello scandalo, promettere severe punizioni per i colpevoli. Come dice Thitinan Pongsudhirak, professore di scienze politiche presso l’università Chulalongkorn a Bangkok: “Abhisit dovrebbe rappresentare un governo pulito e la certezza del diritto, ma la distanza tra la retorica e la realtà sta diventando sempre più ampio”.