Obama, il predicatore

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

Paese cristiano, a cavallo tra Vecchio e Nuovo Testamento, non c’è da stupirsi che l’ufficio della Presidenza Usa sia sempre stato caratterizzato da una forte carica predicatoria. Dalla Casa bianca sono partite le campagne messianiche per portare la pace e la democrazia alle nazioni (Wilson), per combattere il nazi-fascismo (Roosevelt), per contrastare l’impero del male (Reagan), per instaurare un nuovo ordine mondiale (Bush padre), per debellare il male assoluto del terrorismo (Bush figlio). Con il suo ultimo discorso sull’economia, Obama ha fatto un altro passo in questa direzione

Obama il predicatore … e anche il campione di pallacanestro, lo statista che dà lezioni di politica internazionale, il comandante militare che ordina l’assalto alla nave pirata, il padre di famiglia che regala un cucciolo alle sue bambine, il capo di governo che risana l’economia disastrata del paese… e tante altre cose ancora.

E’ noto (o dovrebbe esserlo) che il presidente degli Stati Uniti non ha moltissimi poteri reali, almeno in confronto ad altri presidenti o primi ministri di paesi democratici: ad esempio, non può sciogliere il parlamento, non può emanare decreti legge, non può porre la fiducia, ha un limitato controllo sul bilancio dello stato; soprattutto è il capo di uno stato fortemente federale in cui moltissimi poteri di governo (dalle tasse alla sanità, alla polizia, alla giustizia, all’istruzione) appartengono ai singoli stati.

Ma il presidente degli Stati Uniti ha un enorme potere, che nessun altro capo di stato o di governo ha, almeno in una democrazia: è il “commander in chief”, il comandante in capo, del paese più armato e più potente militarmente del mondo, che muove portaerei, caccia, bombardieri, sottomarini nucleari, truppe di terra, in tutti i continenti e oceani. In realtà anche questi poteri, in base alla costituzione, dovrebbero essere molto più limitati e condivisi con il congresso e con i comandi militari, ma da una guerra all’altra, da un’invasione all’altra, il presidente di turno se ne è di fatto appropriato.

E’ una vecchia tradizione che risale al primo presidente, George Washington, che era anche il comandante dell’esercito rivoluzionario che conquistò l’indipendenza dall’Inghilterra. Anche nei decenni e secoli successivi non sono pochi i generali che sono diventati presidenti o vicepresidenti, da Washington a Andrew Jackson a Teddy Roosevelt, a Dwight Eisenhower; in ogni caso le credenziali militari – avere combattuto in guerra – sono state spesso un requisito indispensabile per assurgere alla presidenza.

Nel caso di Obama no. Non è il primo presidente dal dopoguerra a non avere vestito l’uniforme (Bill Clinton ad esempio era andato a studiare in Inghilterra per non combattere in Vietnam), ma è il primo ad essere eletto pur avendo fatto dichiarazioni, se non proprio pacifiste, almeno contrarie alla guerra – questa volta quella dell’Iraq. Il primo presidente da parecchio tempo a questa parte (almeno da Woodrow Wilson, il presidente della Lega delle Nazioni) ad avere messo al primo posto della sua politica estera non la forza, ma la diplomazia e il dialogo “con rispetto” tra le nazioni.

La stampa e anche l’opposizione repubblicana avevano apprezzato l’abilità diplomatica mostrata da Obama al G20 di Londra; molti hanno salutato le aperture nei confronti della Russia, dell’Iran e, negli ultimi giorni, di Cuba — aperture unite a dichiarazioni di fermezza sui principi e anche a velate minacce. Ma quando il neo-presidente ha ordinato alle forze speciali di liberare l’ostaggio americano nelle mani dei pirati somali, con la conseguente “eliminazione” dei rapitori, si è levato in America un coro di approvazione e di sollievo: Obama aveva superato la sua prima “crisi” internazionale, dando prova di decisione, di rapidità e di essere disposto ad impiegare la forza letale, ha dimostrato insomma di essere un comandante in capo.

L’America è un paese fondamentalmente cristiano, per quanto laico nelle istituzioni, ma di un cristianesimo ancorato più nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Dialogo, rispetto e solidarietà sono valori cristiani, ma l’indole americana si rispecchia più nel Dio ebraico degli eserciti che nel Dio cristiano dell’amore. Nella passata presidenza, quella di George Bush, dopo gli attacchi dell’11 settembre erano prevalsi i riferimenti al Vecchio Testamento (e del resto i fondamentalisti evangelici, che tanta parte hanno avuto in quella presidenza, vi si richiamano esplicitamente).

Obama invece è stato eletto spostando l’accento sul Nuovo Testamento; doveva però ancora dimostrare al popolo americano di non essere un “democratico imbelle”, come di solito vengono accusati di essere i leader democratici, in particolare John Kerry, lo sfortunato candidato alle elezioni del 2004. (Curiosa accusa, dal momento che nel corso del ‘900 sono stati presidenti democratici a fare la guerra – Wilson, Roosevelt, Johnson – con l’unica eccezione dei due Bush, padre e figlio, con le loro due guerre irachene.)

Paese cristiano, a cavallo tra Vecchio e Nuovo Testamento, non c’è da stupirsi che l’ufficio della Presidenza sia sempre stato caratterizzato da una forte carica predicatoria. Dalla Casa bianca sono partite, sostenute da parole ispirate, le campagne messianiche per portare la pace e la democrazia alle nazioni (Wilson), per combattere il nazi-fascismo (Roosevelt), per contrastare l’impero del male (Reagan), per instaurare un nuovo ordine mondiale (Bush padre), per debellare il male assoluto del terrorismo (Bush figlio). Il tutto condito con richiami all’eccezionalismo americano, al “destino manifesto”, alla “città sulla collina” che illumina il mondo.

Anche Obama rientra in questo filone predicatorio e ispirato. Nel suo caso c’è una ragione in più legata alla sua razza e al ruolo che la retorica politico-religiosa afroamericana ha svolto nel movimento dei diritti civili. Obama è troppo giovane per averne fatto parte, ma se ne è appropriato come parte della riscoperta della sua identità nera. E poi è un uomo colto e naturalmente eloquente; i suoi discorsi (in particolare quello sulla razza del marzo 2008 e quello di investitura di due mesi fa) sono sempre discorsi “ispirati” nei toni e nei riferimenti religiosi, anche se non esplicitamente cristiani.

Con il suo ultimo discorso sull’economia, di martedì scorso, Obama ha fatto un altro passo in questa direzione: ha citato la parabola evangelica della casa costruita sulla sabbia, che, arrivata la tempesta, è stata spazzata via; mentre la casa costruita sulla roccia ha resistito alla furia degli elementi. Ha parlato (come già aveva fatto in passato) di lotta contro l’egoismo, lo spirito di rapina, i profitti facili, l’irresponsabilità sociale e — rovesciando lo slogan dell’edonismo reaganiano degli anni ’80 — contro la ricerca della “gratificazione istantanea”, del tutto e subito. Ha parlato di responsabilità morale, dei duri tempi che ancora attendono il paese e, naturalmente (non poteva mancare), della luce della speranza. Davvero una bella predica!