Prove di resistenza all’economia dei disastri

di Annalisa D’Urbano
da http://www.federalismi.it/

Il racconto di due giorni nel campo di accoglienza di Barisciano (Aq), dove Epicentro solidale gestisce un tendone nel quale ha allestito un cineforum e dove fa attività per i bambini. Voci di sfollati, mentre si affaccia il business della ricostruzione.

Barisciano, qualche chilometro a sud di Onna, paesino divenuto simbolo della violenza del terremoto che la notte del 7 aprile, alle ore 3.32 ha colpito al cuore l’Abruzzo. Avanzo per quella che noi abruzzesi conosciamo come la «Piana di navelli» – lunga striscia di terra che taglia al centro paesi e borghi arroccati su pareti verdi – incolonnata tra ambulanze, vigili del fuoco, furgoni della protezione civile e camionette dell’esercito. Quello che ricordavo come luogo ameno è oggi territorio ferito, presidiato, in stato di emergenza, andirivieni di jeep e postazioni con gente in divisa. Lo scenario è surreale.

I centri storici di ogni paesino in provincia dell’Aquila sono blindati, inaccessibili; questo mi impedisce di raccontare gli scenari apocalittici a cui i media ci hanno abituati in questi giorni: case distrutte, tramezzi franati, strutture crollate come castelli di sabbia [metafora che sta emergendo come atroce verità]. Ma nonostante ciò ho conoscenza di quei luoghi attraverso i racconti delle persone e con gli occhi della memoria posso rivederne la vitalità perduta.

Arriviamo da Roma nel campo allestito dalla protezione civile della Regione Piemonte a valle del paese. Scarichiamo gli aiuti [per lo più generi alimentari, prodotti per l’igiene intima e beni di prima necessità], poi allestiamo uno «spazio cinema solidale» all’interno del campo, vicino alla tenda protetta per l’infanzia Anpas, ma indipendente dalle strutture della protezione civile. Due gazebo portati dai centri sociali di Roma, tendone in plastica, tende dateci «in prestito» dagli alpini, video proiettore e dvd rigorosamente pirati… Due giorni di lavoro ed ecco il cinema! L’idea è organizzare proiezioni di cartoni animati il pomeriggio e film in serata, perchè da queste parti «pur u’temp a da passà».

Ma oggi è Pasqua. In cucina non c’è né Vissani né un altro chef, ma solo personale della protezione civile che ha garantito pasta al pomodoro, zucchine e pollo. L’agnello qui si vede solo al telegiornale. Chiedo se posso dare una mano, subito mi sostituiscono a un anziano signore. Il mio compito è pulire i vassoi. All’improvviso tantissime persone si accalcano in fila, silenziosamente e ordinatamente, solo per avere un pasto. Sono 1100 gli abitanti, fino a quel momento rimasti inghiottiti dalle loro tende fredde. Hanno visi scavati che non lasciano trapelare emozioni, sembrano anestetizzati, lo shock delle prime ore non è ancora passato.

Nel pomeriggio ci organizziamo con Vittorio per andare a prendere i bambini sfollati nei campi dei paesi vicini e portarli nell’area per l’infanzia dove abbiamo montato il tendone. Vittorio ha più o meno la mia età, è nato e vive a Barisciano e lavora nel campo del turismo, ma adesso – mi dice ironico – sono disoccupato… ci ridiamo su. Vittorio non ha più una casa, vive in tenda e ha messo a disposizione della comunità il suo furgone.

All’apparenza non è triste nè abbacchiato, ma mentre beviamo insieme un bicchiere di vino rosso offertoci al campo di Picenze, mi dice che non si fida della politica, di chi li ha governati permettendo a costruttori di vendere alla «modica» cifra di 3.500 Euro al mq appartamenti realizzati in violazione della normativa vigente, non sicuri e dissoltisi come neve al sole… Vittorio mi dice pure che lui una casa diversa non la vuole; il bisogno primario è quello di riannodare i fili della memoria sapendo che ogni casa è una storia.

«Non vogliamo ‘new town’ né l’Aquila 2 o 3» – continua – spiegandomi come ricostruitre ‘lì ed ora’ sia fondamentale per la vita, le
persone e l’economia di quei luoghi. Nessuna tabula rasa, nessuna opportunità per nuove speculazioni edilizie… non è il tempo di fare ingegneria economica e sociale. La maggior parte degli abruzzesi vogliono salvare il salvabile, recuperare ciò che non è stato completamente distrutto riaffermando il proprio legame con i luoghi in cui sono cresciuti o che hanno scelto. «Autogoverno», questa è la parola che riecheggia nella mia testa mentre sento parlare Vittorio. Ma resto timidamente in ascolto.

Al campo i bambini organizzano una partita di pallone su un prato verde. Sono euforici, incuriositi dalla situazione, loro che per definizione si fanno prendere da tutto ciò che è fuori dalla normalità. Mai, però, come in questo momento l’anormalità assume un segno negativo. Nella tenda per l’infanzia i bimbi si divertono giocando «al terremoto» con ruspe, scavatori, infermiere ecc… chissà quanto tempo ci vorrà perché possano elaborare la paura e il trauma collettivo.

Riccardo, cinque anni, sfollato con madre, padre, sorella e infagottato dentro abiti più grandi di lui, chiede se può avere un altro uovo di pasqua… solo per la sorpresa s’intende! Centinaia di uova sono rimaste accatastate nel campo, ma avranno pulito la coscienza di chi le ha regalate e aumentato i profitti di Kinder, Perugina, Motta e le altre «multinazionali della dolcezza». Una catastrofe che diventa occasione per rispondere alla crisi economica.

Intanto, continuano ad emergere responsabilità gravi in ordine al disastro: interi quartieri realizzati in zone sovrastanti falde attive, ospedale abusivo, casa dello studente fuori norma, palazzi tirati su con sabbia marina al posto del cemento armato. Ma al di là della verità giudiziaria ancora tutta da accertare, il quadro è chiaro: il mancato rispetto della normativa e la gestione affaristica delle politiche del territorio ha consentito l’esplodere del costruttivismo selvaggio, concausa diretta di questa tragedia.

Palese è, dunque, l’urgenza di ripensare in toto l’idea che abbiamo di città, di politiche territoriali, di stile di vita e consumi. Ma le grandi opere di intervento e ricostruzione su cui sono già all’opera amministratori, costruttori ed esperti [sui quotidiani di questi giorni aleggia
lo spettro del «partito del terremoto»] aprono a numerosi interrogativi. Di quali bisogni si terrà conto nel definire un piano di risanamento?
Il cambiamento quale segno avrà? Il rischio è che possa adottarsi un «modello Irpinia» dove l’erogazione di aiuti pubblici ha spalancato le porte al solito giro di appalti, sub appalti, progetti, perizie e speculazione edilizie nate dall’emergenza.

Per interrogarsi su ciò che sta succedendo qui in Abruzzo è utile rileggere l’ultimo libro di Naomi Klein, «Shock economy». La giornalista canadese descrive in modo dettagliato i disastri prodotti dagli eccessi del capitalismo assumendo a paradigma New Orleans, nel 2005, quando la capitale della Louisiana fu travolta dall’uragano Katrina. Nell’immediato ci fu una dura presa di posizione contro la scelta dell’amministrazione Bush di tagliare le risorse ai fondi per l’ambiente.

Subito dopo, quando non era ancora definitivo il numero delle vittime, i rappresentanti delle società di costruzione edilizia iniziarono ad avanzare proposte per «nuovi inizi», di fronte a quella «tabula rasa» di abitazioni distrutte. La possibilità di cogliere una opportunità nella tragedia che colpì New Orleans fu teorizzata, in particolare, da Milton Friedman, mentore della scuola di Chicago, il quale propose la riforma del sistema scolastico per convertire le preesistenti scuole pubbliche distrutte in «scuole charter» gestite da privati. Dopo alcuni mesi, il sistema delle scuole pubbliche di New Orleans era stato quasi completamente smantellato.

I teorici del capitalismo delle catastrofi vedono nelle crisi una opportunità di grandi profi
tti. La catastrofe che ha colpito l’Abruzzo, invece, dovrebbe essere occasione per interrompere i sistemi di governance che fino ad oggi hanno consentito gestioni del territorio molto profittevoli per alcuni, ma decisamente irrazionali, spregiudicate e drammaticamente dannose per gli interessi collettivi delle comunità locali.

Mentre ascolto disquisire di case sicure come in Giappone o in California dove le scosse ci sono, ma in pochi si fanno male, i paesini della «Piana di navelli» mi ricordano «Ottavia» la città ragnatela descritta da Italo Calvino nelle «Città invisibili», costruita sul precipizio fra due montagne scoscese. Malgrado Ottavia fosse sospesa sull’abisso, legata ai lembi con funi, catene e passerelle, Calvino osservò come la vita degli abitanti fosse meno precaria che in altre città.

La rete che sostiene Ottavia è metafora delle fondamenta delle nostre città, delle nostre certezze, conoscenze e convincimenti di cui spesso percepiamo l’invulnerabilità ma non i limiti, salvo acquisire consapevolezza solo dopo, quando tutto ci crolla addosso.