Liberi di vivere nel nostro continente

di Marica Di Pierri
da www.carta.org

Intervista a Miguel Palacin, coordinatore generale del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene: «L’Europa sta cercando di imporre ai governi andini un trattato di libero scambio mascherato da accordo di associazione».

Sta per terminare in questi giorni in Germania la missione in Europa della delegazione del Coordinamento andino di organizzazioni indigene [Caoi], che raccoglie le organizzazioni indigene andine di Perù, Bolivia, Colombia, Ecuador, Cile ed Argentina e che ha visitato nei giorni scorsi anche l’Italia, per stringere alleanze con movimenti, associazioni, forze politiche e discutere di diritti umani, commercio e del ruolo delle imprese europee in America latina.
In Italia la delegazione è stata invitata dal Coordinamento italiano per il Forum sociale mondiale ed europeo, che raccoglie molte organizzazioni italiane, tra cui Arci, A Sud, Fiom, Cgil, Legambiente, Libera, Uisp.

Incontriamo Miguel Palacin, coordinatore generale della Caoi, uno dei leader indigeni protagonisti dell’ultimo Forum dociale mondiale di Belém per chiedergli di spiegarci nel dettaglio gli obiettivi di questa missione.

«La Caoi ha deciso di organizzare questa missione perché crediamo sia molto importante il lavoro di costruzione di relazioni e alleanze anche qui in Europa. In particolare in questo momento, mentre proprio l’Unione Europea tenta in tutti i modi di imporre ai paesi andini un Accordo di associazione che in realtà è un trattato di libero commercio vero e proprio, e lo sta facendo nonostante la contrarietà della Bolivia, attraverso negoziati bilaterali che rischiano di mettere in pericolo il processo di integrazione andino, cioè decenni di processo politico di integrazione regionale.

Qual è la posizione dei movimenti sociali ed indigeni di fronte a tale accordo?

I movimenti sociali ed indigeni di tutti e quattro i paesi che formano la Can – cioè Perù, Bolivia, Ecuador e Colombia, sono molto critici di fronte alla firma di questo accordo. L’Ue lo ha mascherato da accordo di associazione, aggiungendo alle previsioni di carattere commerciale due voci di negoziato da usare come specchietti per le allodole: il dialogo politico e la cooperazione. Peccato che nessuna di queste due componenti aggiuntive sia stata finora oggetto dei negoziati, che si sono fermati ai patti commerciali. Patti che, ad esempio, permetterebbero per la prima volta di brevettare le conoscenze collettive tradizionali per 35 anni. Un passo avanti verso la distruzione delle nostra cultura attraverso il rifiuto della proprietà collettiva e la minaccia alla biodiversità e alla stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.

Da molti anni i movimenti indigeni parlano della necessità di rifondare gli stati nazione, ed hanno introdotto la nozione di Stato plurinazionale. Puoi spiegarci di cosa si tratta?

La diversità e specificità dei singoli popoli che abitano le Americhe sono state disconosciute per oltre 500 anni. Prima dalla colonizzazione, poi – nelle fasi di indipendenza – dall’imposizione di uno stato uninazionale e uniculturale. Quello che rivendichiamo è il riconoscimento delle nostre molteplici forme di vita e di organizzazione. E’ quello che hanno riconosciuto le nuove costituzioni di Ecuador e Bolivia, che si definiscono ambedue «stati plurinazionali» ma anche quello che ci poniamo come obiettivo in Perù e in Colombia, dove tuttavia la situazione politica è molto più complessa.

Si parla molto proprio in Perù e in Colombia della criminalizzazione della protesta e dei movimenti sociali. Quanto è drammatica la situazione?

In Colombia come è noto il regime narco-paramilitare di Uribe ha fatto della criminalizzazione il principale strumento di delegittimazione delle lotte sociali. Anche il ricorso alle intimidazioni, all’assassinio selettivo, alle sparizioni forzate è purtroppo molto frequente. La stessa cosa sta capitando in Perù, dove il governo di Garcìa ha emanato durante l’ultima legislatura ben 11 decreti legge che criminalizzano ogni forma di protesta e puniscono con diversi anni di carcere anche la semplice organizzazione di manifestazioni. Anche in Cile alle minoranze etniche viene ancora applicata una legge antiterrorismo che risale ai temi della dittatura. Insomma, la situazione non è affatto semplice, ma non non ci arrendiamo. Continuiamo a resistere nei nostri territori e a denunciare a livello nazionale ed internazionale le violazioni di cui siamo vittima.

Quali sono le prossime sfide che il movimento indigeno andino si pone?

Anzitutto in Perù tra pochi giorni inizierà un sollevamento popolare ed indigeno che vuole protestare contro le misure prese dal Governo. Senza dubbio però, il prossimo appuntamento importante sarà il IV Vertice Continentale dei Popoli e Nazionalità Indigene di Abya Yala [il nome preispanico del continente americano, ndr] che si celebrerà nella città di Puno, in Perù, alla fine del prossimo maggio. Sono già previsti oltre 5000 delegati di organizzazioni indigene, ma crediamo sia importante avere una buona partecipazione anche di organizzazioni internazionali. Questo è un altro degli obiettivi della nostra visita in Europa.