Fuori dal coro. Intervista al giurista Danilo Zolo,

di Christian Elia
da www.peacereorter.net

La conferenza di Ginevra delle Nazioni Unite sul razzismo, chiamata Durban II, in quanto ideale continuazione di quella tenuta nel 2001 in Sudafrica, ha chiuso i battenti. Il documento finale è stato approvato per acclamazione da tutti gli stati membri dell’Onu tranne dieci. Tra loro gli Stati Uniti e Israele. L’Onu ha salutato l’approvazione del documento come un successo, in quanto lo hanno votato anche gli stati europei che hanno abbandonato l’aula durante l’intervento del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, ritenuto offensivo verso Israele. Ma si tratta di un reale successo? PeaceReporter a chiesto un commento al giurista Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto all’Università di Firenze.

Professor Zolo, finiti i lavori di Ginevra resta una perplessità di fondo sulla efficacia pratica di documenti come il testo finale di Durban II. Alla fine il testo ribadisce l’impegno dell’Onu a debellare il razzismo, ma dopo il boicottaggio di alcuni stati importanti, come gli Stati Uniti, ci si domanda se il meccanismo stesso dell’Onu funzioni. Che ne pensa?

”Un meccanismo che è la ripetizione di uno scenario ormai consueto, che irrita e infastidisce. Le Nazioni Unite non sono state minimamente in grado, negli ultimi sessant’anni, di intervenire prevenendo le ingiustizie, i drammi e le tragedie del mondo nell’era della globalizzazione. Senza mai riuscire a contenere la spinta delle grandi potenze verso l’uso della forza. L’aspetto drammatico è che anche dopo la caduta di Bush junior e dopo l’avvento di questo presidente (Barack Obama ndr) sicuramente innovativo, se non altro come immagine, ci troviamo almeno su un piano dei rapporti internazionali in una situazione apparentemente meno tesa, ma che resta pericolosa, come dimostra la questione del sistema di difesa anti-missilistico nel cuore dell’Europa.

Detto che l’efficacia dell’Onu è sempre meno credibile, come mai Israele non ha voluto comunque approvare un testo dal quale, alla fine, sono stati eliminati tutti i punti che il governo israeliano riteneva offensivi?

Israele non ha mai accettato nessun documento emergente da istituzioni internazionali. Da quando si è auto dichiarato Stato, nel 1948, Israele ha ignorato radicalmente il diritto internazionale e ha esercitato la sua sovranità in modo assolutamente arbitrario, sostenuta dagli Stati Uniti, in primo luogo all’interno del Consiglio di Sicurezza, dove gli Usa hanno sempre usato il loro diritto di veto per proteggere l’alleato. Contando anche su un’ampia complicità di quasi tutti gli stati europei. Israele può tranquillamente ignorare il diritto internazionale perché è come gli Stati Uniti, legibus soluta, al di sopra della legge. In questa situazione Israele non si sente in dovere di rispettare la legge internazionale e non lo fa. Tutto questo finisce per essere quasi logico, salvo la tragedia del popolo palestinese e l’etnocidio in corso con la gravissima complicità delle istituzioni internazionali. Al di là delle dichiarazioni non effettive del Consiglio di Sicurezza le istituzioni internazionali non hanno mai fatto nulla per salvare il popolo palestinese dalla tragedia nella quale è immerso.

Una campagna internazionale chiamata Stop the Wall, che unisce una serie di realtà differenti, chiede che Israele venga condannato dalla comunità internazionale in base alla Convenzione sull’Apartheid degli anni Settanta. Ritiene che sarebbe applicabile al conflitto israelo – palestinese?

L’applicazione sarebbe, in teoria, ragionevole e ci sono anche esponenti importanti della comunità scientifica e culturale israeliana che hanno sempre sostenuto questa tesi, come per esempio Ilan Pappè. In pratica, però, non ha senso pensare che ci sia una reale applicazione della Convenzione. Basta pensare a quello che Israele è stato capace di fare a Gaza, con il disprezzo più totale del valore della vita umana e del diritto collettivo di un popolo a vedersi in qualche modo riabilitato in dignità, in autonomia e nell’esercizio del proprio diritto a vivere nella sua terra.

In alcuni articoli del passato, lei ha sostenuto che il sionismo è stato ”molto più di una normale forma di conquista e di dominio coloniale”. Conferma questa lettura?

Non c’è dubbio che l’ideologia sionista si è affermata rapidamente in Israele ed è cambiata.
Da una pseudo ideologia socialista, come nel caso dei kibbutz per esempio, dove sono anche stato personalmente, che davano la speranza della nascita di uno Stato non solo liberaldemocratico ma anche aperto ai valori del socialismo, si è affermata invece una posizione sempre più intransigente, sempre più nazionalista e coloniale. Come sosteneva Martin Buber, grande padre d’Israele, era sì legittimo che gli ebrei ritornassero nella loro terra antica, ma dovevano farlo come semiti e cioè come un popolo del Mediterraneo appartenente a quella terra. Invece, fin dal 1948, con quella che Ilan Pappè ha chiamato pulizia etnica, si è affermato un criterio di cancellazione di ogni forma di esistenza del popolo palestinese in uno Stato che, a mio parere, non è democratico ma etnocratico, che discrimina un milione e mezzo di palestinesi presenti al suo interno.

Lei citava Martin Buber, un esempio di intellettuale critico. Michael Warschaewski, durante l’ultimo conflitto a Gaza, ha parlato di ”un assordante silenzio in campo palestinese e israeliano di esponenti culturali capaci di rivitalizzare il dibattito intellettuale attorno a questo conflitto. Cosa ne pensa? Qual’è la situazione in Europa? Considerando anche che il tema del suo ultimo libro, L’alito della libertà, che è anche una riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella società?

Mi pare che manchino in questo momento, in Italia in particolare ma anche in Europa, voci che recuperino per un verso il rispetto nei confronti della tragedia che ha portato alla strage del popolo ebraico, verso la quale nessuna forma di negazionismo è tollerabile, ma anche che tengano conto del dramma palestinese. D’altra parte, a cominciare dal Presidente della Repubblica italiana, non non si fa che ripetere il rituale del diritto d’Israele a vivere e questa è quasi una provocazione perché ci troviamo in un confronto militare tra la quarta potenza nucleare del mondo, sostenuta da potenze nucleari, e un popolo che vive in condizioni disperate nell’incapacità assoluta di difendersi e di reagire, se non nella forma disperata del terrorismo suicida.