LA CINA PREPARA LA SUA FUGA DAL DOLLARO?

di Ilvio Pannullo
da www.altrenotizie.org

La crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti ha provocato e continuerà a provocare il crollo degli indici azionari. Nonostante la perdita massiccia di milioni di posti di lavoro e di una quantità ancora non quantificabile di valori monetari, le follie di Wall Street potrebbero, tuttavia, provocare danni geopolitici ancora maggiori. Tutto ruota intorno alla gigantesca esposizione del governo cinese nei confronti del sistema statunitense: ammontano infatti a ben 1.946 trilioni di dollari le riserve estere della Cina, la maggioranza delle quali è denominata in dollari. All’incirca mille sono poi i miliardi di dollari prestati dalla Cina agli Usa, in qualità di primo sottoscrittore di buoni del Tesoro americani. Queste sono le cifre che raccontano di un’economia americana in mano alla volontà cinese: se fosse infatti richiesta al Ministero del Tesoro americano la restituzione dell’intero prestito fatto, il paese sarebbe in bancarotta.

Fino ad oggi una simile ipotesi non sarebbe stata in piedi, vista l’incondizionata fiducia nutrita dai governi di tutto il mondo nel dollaro e nella sua solidità. La situazione, tuttavia, è cambiata irrimediabilmente. Parlando delle dinamiche economiche inerenti alla crisi dei mercati azionari, infatti, quello che volutamente non si considera è la dimensione numerica del problema. Secondo la Banca per i Regolamenti Internazionali, al 31 dicembre 2007, il valore nominale di tutti i contratti derivati era di 596.004 miliardi di dollari e, ad oggi, sulla base delle dinamiche di crescita esponenziale degli ultimi anni, tale valore si stima presumibilmente non inferiore ai 700.000 miliardi di dollari.

Una cifra incomprensibile per qualunque persona che si guadagni da vivere onestamente. Partendo da questo dato ben si comprende come già i 700 miliardi di dollari del piano Paulson prima e le vagonate di miliardi del piano Obama adesso siano ben poca cosa. In pratica nulla di più che un disperato tentativo di svuotare il mare con un secchiello.

Se da una parte, infatti, tutti i soldi messi sul piatto rappresentano un’enormità rispetto ad altre voci di spesa del bilancio americano, ad esempio se paragonate al totale del deficit del bilancio federale americano del 2007 (“appena” 162 miliardi di dollari, l’1,2 % del Pil Usa), dall’altra, nonostante tutto, il mare di miliardi di dollari stanziati sono, allo stesso tempo, un’inezia rispetto alla valanga di carta straccia in circolazione. Solo i famigerati CDS (credit default swap: assicurazioni sulle insolvenze di credito. ndr) alla fine dello scorso anno ammontavano a 57.894 miliardi di dollari, circa il 120 % di tutto il Pil mondiale, secondo i dati della Banca Mondiale. La valanga di liquidità cartacea è dunque più alta della montagna d’acqua di uno tsunami. Come il maremoto del 26 dicembre 2004, anche gli avvenimenti di questi giorni travolgeranno molti e porteranno distruzione. Questo è quanto desiderava chi ha fomentato o anche solo evitato di lanciare l’allarme per l’imminente catastrofe finanziaria.

Fino a qui la storia. Quello che ora interessa, tuttavia, sono le conseguenze che una simile situazione provocherà negli equilibri geopolitici internazionali, considerando che il dollaro è stata, fino ad oggi, la valuta di riserva mondiale, la moneta, cioè, attraverso la quale si rendeva possibile lo scambio di beni e servizi tra tutti i paesi rientranti nell’area d’influenza anglo-americana. Quello che si è definito – a ragione – come l’impero monetarista americano, l’imperialismo del dollaro.

Questo sistema, che ha permesso agli Stati Uniti di vivere secondo standard qualitativi ben al di là delle possibilità della nazione perché ben al di là dell’umana ragionevolezza, ora sta implodendo su se stesso. Più dollari vengono stampati per svuotare l’oceano della crisi, infatti, meno varranno i dollari in circolazione e gli altri attori della scena mondiale non si possono più permettere di stare a guardare perché in ballo vi è il futuro dei rapporti commerciali internazionali. Da qui l’interrogativo: cosa mai potrebbe sognare la Cina, catturata – a sentire Washington – nella trappola del dollaro?

Se ascoltiamo i leader americani e le loro schiere di esperti dei media, la Cina sogna non solo di restare prigioniera, ma anche di intensificare la durezza della sua condizione di prigionia acquistando sempre più T-Bonds (i titoli del debito americano) e dollari. In realtà, tutti sanno cosa sognano i prigionieri. Sognano di fuggire, naturalmente: di uscire dalla prigione.

Gli uomini del gruppo Europe2020, nell’ultimo numero del loro report (GEAB 34 parte I) non hanno dubbi: Pechino sta ora costantemente cercando di trovare il modo di liberarsi, prima possibile, della montagna di assets “tossici” che sono ora diventati i T-Bond e i dollari. Va detto, per onestà del vero infatti, che in un qualsiasi racconto avente ad oggetto una fuga, i prigionieri non passano certo il loro tempo annunciando che si stanno preparando per l’evasione. In realtà, al contrario, tendono ad evitare di sollecitare la vigilanza delle loro guardie.

In questa prospettiva, secondo il team LEAP/Europe2020, la dichiarazione cinese del 24 Marzo, che chiedeva la sostituzione del dollaro con una valuta di riserva internazione, era da interpretarsi sia come un “saggiare il terreno” sia come un avvertimento: un sondaggio per valutare le forze in campo, in particolare all’interno del G20, quando si tratta di spostarsi nell’era post-dollaro, ed un avvertimento costruttivo o distruttivo (in funzione della reazione all’idea precedente) inviato ai vari protagonisti globali.

“Un giocatore responsabile (e Pechino è uno di questi) deve inviare – si legge nel report – segnali silenziosi agli altri giocatori che potrebbero seguirlo o aiutarlo a pianificare il lavoro. La preparazione e l’implementazione di una Grande Fuga richiede la collaborazione di molti partner, e nessuno di quelli che sarebbero stati disponibili a collaborare deve finire nei guai perché non è stato informato”. Come sempre nulla da eccepire. “In ogni caso – si continua a leggere nel report – grazie alla saggiatura del terreno da parte della Banca Centrale Cinese, le autorità cinesi hanno la conferma dei seguenti punti:

1. Una buona fetta degli altri membri del G20 è chiaramente favorevole ad un passaggio rapido all’era post-dollaro, in particolare Russia, India, Sudafrica, Argentina e Brasile. Pechino, dunque, non sarà sola quando avverrà il grande salto;
2. USA e UK hanno rifiutato di considerare qualsiasi mossa nella direzione dell’era post-dollaro;
3. L’Europa non è in grado di prendere nessuna decisione veramente ferma riguardo al suo vecchio protettore, gli USA”.

Pechino si sta quindi dedicando ad annunci sempre più chiari e netti, sempre in modo graduale, a volte anche seguiti da vaghe smentite, provenienti da fonti meno importanti, ma che circolano ampiamente e rapidamente grazie ai media finanziari. Sta dunque aumentando la sua libertà di espressione senza danneggiare particolarmente il valore dei T-bonds o del dollaro. Quest’ultimo aspetto è effettivamente la necessità assoluta del governo cinese: evitare in qualunque modo un crollo del valore dei T-Bond e del dollaro prima che sia fuggita dalla prigione del dollaro.

LEAP/Europe2020 ritiene che, nei prossimi mesi, la Cina rivelerà l’esatto significato di queste esigenze; un fine o una necessità? Se si tratta di un fine, allora Washington, Londra e i media internazionali della finanza hanno ragione: Pechino seguirà i passi di Washington, cercando di aumentare la sua influenza nelle decisioni americane. Se è una necessità, allora il nostro team ha ragione e i leader cinesi si daranno da fare per vendere i loro T-bonds ed i loro dollari scegliendo il miglior prezzo possibile, sempre evitando di generare scompens
i volti a ridurre il valore di questi beni il più a lungo possibile.

Tuttavia, è difficile immaginare, in contrasto con la prima opzione, un’America pacificamente ostaggio della volontà cinese. Si potrebbe mettere in relazione questa situazione finanziaria tra Usa e Cina con le forti critiche sul Tibet e con la tensione creata volutamente dalla marina americana verso quella cinese nel Mare Cinese Meridionale.

Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l’inizio di una strategia della tensione per portare a qualche “incidente” capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l’esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese. E’ probabile, infatti, che oggi, per i circoli della destra repubblicana, del Pentagono e della lobby israeliana, sia insopportabile l’idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino.

L’antico e collaudato metodo di ricorrere alla forza per cambiare questa situazione è, purtroppo, nella storia americana passata e recente. Non si creda, infatti, che i Rumsfeld e i Cheney siano diventati tranquilli pensionati intenti alle cure dei nipotini. Oggi è in ballo la fine dell’egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine. Obama sembra molto popolare ma le forze a lui ostili sono in grado di organizzare un “casus belli” prescindendo dalla volontà della sua amministrazione, contando su pezzi di servizi segreti, su molti generali del Pentagono, su tutta la lobby economica del complesso militare-industriale statunitense. Sono poteri forti in grado di colpire, e il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l’enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa. C’è da sperare, naturalmente, che ciò non accada. Ma se la crisi americana non arretra, la voglia di uscirne a spese degli altri, fidandosi della forza militare, potrebbe non essere cosa così remota.