Laici e cattolici, lo spazio del dialogo

di Giulio Giorello
in “Corriere della Sera” del 5 maggio 2009

La religione è una «benedizione», se essa ridesta lo spirito civile; una «maledizione» se diventa un pretesto per la discriminazione. Era la lezione di Thomas Jefferson, terzo presidente di quegli Stati Uniti che hanno realizzato il primo «esperimento democratico» dell’epoca moderna.

Senza bisogno di alcun Concordato, da quella Confederazione Dio non era affatto escluso; anzi, era un «cittadino» garante di libertà e giustizia, e per questo poteva permettersi il lusso di coesistere con gli atei più arrabbiati; dopotutto, certe forme di ateismo possono contribuire a rendere più nitidi gli orizzonti dell’atteggiamento religioso.

Questo è stato soprattutto un ideale: ma un ideale che ha funzionato come potente correttivo nelle grandi crisi che gli Usa hanno affrontato – diciamo da Abraham Lincoln a John Fitzgerald Kennedy. Ma noi, italiani ed europei, non siamo lontani da questa tradizione?

Da noi, laicità vuol dire Rivoluzione Francese prima ancora degli eventi che hanno portato all’unità d’Italia o alla Terza Repubblica in Francia. Ma i legami con l’America non mancano, basti pensare a quelli tra i democratici statunitensi e i patrioti risorgimentali nell’Ottocento, per non dire della potente americanizzazione del Paese dal secondo dopoguerra in poi.

Sul Corriere del 3 maggio Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha ricordato che la laicità è anche, in positivo, «realizzazione dell’identità dello Stato». Sia lecito aggiungere che il faticoso processo di costruzione di tale identità è stato, qui da noi, segnato da una tolleranza ben diversa dalla concessione di un’altezzosa superiorità.

Dallo smantellamento (con Carlo Alberto) delle interdizioni contro ebrei e valdesi alla efficace cooperazione, pur nella rivalità, delle diverse forze politiche nella Resistenza, questo tipo di tolleranza ha potuto rimodellare le istituzioni e indicare forme di pacifica convivenza.

Riccardi fa suo il giudizio severo per cui il «relativismo» non saprebbe rispondere alla sfida posta da qualsiasi identità forte. Ma una componente relativistica è ineliminabile dall’esperienza della democrazia proprio come la consapevolezza della fallibilità dei risultati è ineliminabile dall’impresa scientifica: in quest’ultimo caso si garantisce il pluralismo nel tempo (le idee possono cambiare); nell’altro quello nello spazio (gli stili di vita possono liberamente dispiegarsi).

Il relativismo è un buon affare, e lo è anche per quell’opinione religiosa o morale che goda del consenso maggioritario dei cittadini: le cose potrebbero cambiare e la maggioranza di oggi potrebbe diventare minoranza domani. È un calcolo cinico? Calcolo sì; ma direi virtuoso.

Dopotutto, calcolare è un modo di ragionare, che consente di disarmare – come vuole Riccardi – «messianismi e passioni di parte». Quanto alle cosiddette radici, nutro diffidenza per il crociano «Non possiamo non dirci cristiani» come per il più recente «Non dobbiamo dirci cristiani e tantomeno cattolici». Non vogliamo costrizioni, ma possibilità.

E allora, anche il detto di Croce può venire riqualificato: potremmo scegliere di «sentirci» cristiani perché non vogliamo rinunciare al patrimonio di idee e di espressioni che al Cristianesimo si legano. Allo stesso modo, perché non dirci pure musulmani, ebrei, o magari «amici di Spinoza»?

Il banco di prova dell’esperimento democratico sembra oggi, di qua e di là dell’Atlantico, quello
delle intricate questioni bioetiche sollevate dal progresso tecnico-scientifico. Non si tratta solo di
situazioni di frontiera, ma di pratica pressoché quotidiana con cui si confrontano medici e pazienti.

Le contrapposizioni di principio care agli «assolutisti» andranno bene per i talk show. Ma per i
relativisti che amino la democrazia, lo spazio del confronto è quello della negoziazione, utilizzando il ragionamento sui casi (per altro, praticato già dai Gesuiti del Seicento) in cui si parte dal riconoscimento del dissenso per trovare un accordo ragionevole.

Qualcosa del genere – ma con un certo spreco di energie e di risorse – si è avuto nel nostro Paese con le discussioni sul divorzio e sull’aborto, dove l’iniziale «opposizione di principio» dei politici democristiani in seguito ha lasciato posto alla implicita accettazione, seppur controvoglia, di leggi che non mi paiono ispirate a un laicismo intransigente.

Però, la negoziazione dovrebbe essere opera più della società civile che dello Stato; ed è da qui che può cominciare la «condivisione» che Riccardi auspica – intesa tuttavia come la comune salvaguardia dello spazio in cui le più diverse opinioni e forme di vita possano confrontarsi, anche duramente.