La lenta manovra della corazzata americana

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

Un grande paese come gli Stati Uniti è come un grosso bastimento che può cambiare rotta solo molto lentamente. Nelle ultime settimane dalla torretta di comando Obama ha impartito ordini diversi da quelli del precedente capitano, ma, ammesso che siano arrivati nella sala macchine e che i macchinisti li stiano eseguendo, ci vorrà del tempo per vedere i primi risultati. Prova ne sia la recente vicenda delle manovre Nato in Georgia o i rapporti con Cuba. Le difficoltà maggiori nel cambiare rotta il neopresidente americano le incontra in Afghanistan e nel vicino Pakistan. E nelle insidiose acque della Palestina

Tempo addietro, rivolgendosi a coloro che si aspettavano rapidi e sostanziosi cambiamenti nella politica estera americana, Barack Obama dichiarò che un grande paese come gli Stati Uniti è come un grosso bastimento che può cambiare rotta solo molto lentamente. Nelle ultime settimane dalla torretta di comando sicuramente Obama ha impartito ordini diversi da quelli del precedente capitano, ordini per spostare la nave su una diversa rotta, ma, ammesso che siano arrivati nella sala macchine e che i macchinisti li stiano eseguendo, ci vorrà del tempo per vedere i primi concreti risultati.

Prova ne sia la recente vicenda delle manovre Nato in Georgia e nelle acque limitrofe del mar Nero, che rientrano nella ripresa della guerra fredda nei confronti della Russia iniziata da George Bush. Le manovre furono programmate come risposta, o risposta alla risposta, nei confronti della Russia, che qualche mese prima aveva annunciato manovre navali congiunte con il Venezuela di Ugo Chavez in acque che gli Stati Uniti considerano di loro stretta pertinenza fin dal lontano 1823, dai tempi cioè della Dottrina Monroe. Specularmente è esattamente quello che pensano i russi del mar Nero e di un’area geografica che l’Impero russo prima, l’Unione sovietica poi, la Russia di Putin alla fine, considerano parte della zona esclusiva di influenza russa.

Nel suo incontro del G20 a Londra con Vladimir Putin Obama aveva annunciato che le relazioni russo-americane sarebbero ripartite da zero (“dobbiamo premer il bottone del reset” – disse). Ma evidentemente i comandi dei computer sono più veloci di quelli delle navi da guerra e le manovre georgiane-statunitensi, che tanto hanno innervosito la Russia, aumentando il nervosismo per lo scudo missilistico in Polonia-Repubblica ceca e per altre provocazioni “minori”, si sono tenute.

Con la conseguenza che il sempre imprevedibile (e irresponsabile) presidente georgiano Sakashvili per aumentare la tensione tra lo storico egemone russo e il suo nuovo protettore americano non ha trovato di meglio che diffondere con grande fanfara la notizia di un presunto colpo di stato ai suoi danni che sarebbe stato orchestrato dai servizi segreti russi per “destabilizzare la Georgia”. Gli americani non ci hanno creduto molto e in ogni caso hanno fatto finta di niente.

Lo stesso discorso vale per Cuba. Le aperture diplomatiche di Obama sono innegabili, anche se sono state ricevute in modo contraddittorio dai due fratelli Castro, con Raul (che sarebbe il presidente in carica) che ha mostrato di apprezzarle, mentre Fidel (che non avrebbe incarichi di governo) che le ha respinte con sdegno. Ma intanto la corazzata americana proseguiva il suo corso e la settimana dopo il dipartimento di stato confermava, per l’ennesima volta, l’inclusione di Cuba tra i paesi che sponsorizzano il terrorismo.

Una inclusione che non ha mai avuto alcuna giustificazione concreta, ma risale all’animosità tra i due paesi dopo la rivoluzione castrista del 1959, e precisamente al fatto che negli anni seguenti Cuba aveva dato rifugio ad esponenti delle Pantere nere e di altri gruppi “sovversivi” nordamericani e che negli anni ‘80 aveva sostenuto i movimenti di guerriglia marxista in America centrale. (Del resto anche Cuba considera – con qualche ragione dopo il tentativo di invasione della Baia dei porci e i molti attentati contro la vita di Fidel Castro — gli Stati Uniti uno stato terrorista.)

Le difficoltà maggiori nel cambiare rotta il neopresidente americano le incontrerà in Afghanistan e nel vicino Pakistan. In quella regione la strategia politico-militare è tracciata già da molti anni (dall’invasione di fine 2001): liberare l’Afghanistan dai talebani puntando sulla presidenza di Hamid Karzai e sostenere il Pakistan come argine contro il fondamentalismo islamico, sostenendo qualsiasi leader che dimostri la capacità di controllare il paese. Chiaramente sia la politica sia la strategia militare elaborate dalla precedente amministrazione americana sono fallite: i talebani sono all’offensiva, controllano larga parte del territorio, mentre il governo Karzai si è dimostrato del tutto inefficace a contrastarli (oltre che particolarmente corrotto nell’amministrazione interna).

Obama non ha potuto fare altro fin qui che continuare quella politica, mandando più soldati e ordinando di intensificare le operazioni militari in tutto il paese per cercare di puntellare il traballante governo Karzai. Allo stesso tempo il neopresidente ha fatto trapelare il suo scontento per come stanno andando le cose e si è rifiutato di appoggiare esplicitamente Hamid Karzi nelle prossime elezioni presidenziali.

Se, come è probabile, non ci saranno clamorosi risultati positivi di questa “surge” afgana (sul modello che ha portato ad una relativa stabilità in Iraq), Obama dovrà però presto cambiare rotta, in Afghanistan come in Pakistan, dove il governo di Ali Zardari sembra incapace di fermare l’offensiva talebana che minaccia di impossessarsi del piccolo ma pericolosissimo arsenale nucleare pakistano.

Le acque in cui si sta dimostrando più insidioso manovrare la corazzata americana sono quelle, da decenni tempestose, della Palestina, intesa come Israele e Cisgiordania. La politica di Bush era stata per otto anni di acritico appoggio a qualsiasi azione del governo israeliano: dalla continuazione degli insediamenti nei territori occupati, alla guerra del Libano dell’estate 2006, alla guerra contro Gaza di fine 2008. La riproposizione, stanca e tardiva, della soluzione “due popoli – due stati” nella Conferenza di Annapolis del novembre scorso, non aveva prodotto alcun risultato, eccetto, appunto, il brutale assalto israeliano a Gaza.

Da qui la necessità di un cambiamento di rotta, che tuttavia oggi si presenta ancora più difficile, non solo per le prevedibili resistenze interne, ma soprattutto per il fatto che il nuovo governo israeliano sembra avere abbandonato del tutto l’intenzione di consentire la nascita di uno stato palestinese e subordina adesso la sua creazione alla “soluzione del problema iraniano”.

Ora, non c’è dubbio che l’Iran rappresenti una minaccia, non tanto per le sue inesistenti armi nucleari, quanto per il suo viscerale antisemitismo e per l’influenza che esercita su tutto il Medioriente attraverso il sostegno ad Hamas e agli sciiti libanesi di Hezbollah (come anche agli sciiti del Bahrein). Una minaccia che viene denunciata esplicitamente da Israele, ma è avvertita anche dai paesi arabi (sunniti) della regione, primo fra tutti l’Arabia saudita.

Per Obama la difficoltà principale nei colloqui di questa settimana con Shimon Peres e in quelli ancora più impegnativi la settimana prossima con Benjamin Netaniahu sarà fare capire al governo israeliano che deve impegnarsi davvero in una soluzione di pace, senza allo stesso tempo dare l’impressione di ritirare il sostegno tradizionale degli Stati Uniti verso lo stato di Israele. Obama ha bisogno per questo della collaborazione dell’Iran e della Siria (quest’ultima cancellata dalla lista degli stati terroristici – suscitando le proteste di Israele), senza allo stesso tempo incoraggiare le spinte egemoniche di questi due paesi nella regione.

Una manovra complessa, come complesso è tutto ciò c
he avviene in Medioriente, che metterà a dura prova l’abilità di un comandante deciso a cambiare rotta come sicuramente è Barack Obama. Soprattutto ci vorrà tempo.