La traversata del deserto

di Gabriele Del Grande
da www.peacereporter.net

Asmara, Cairo, Tripoli, Asmara. Padre Austin sfoglia tra le mani una ventina di buste bianche. Controlla le intestazioni scritte a penna. Sono tutte senza francobolli. Sono le lettere dei prigionieri eritrei di Burg el Arab.

Siamo in Egitto. La parrocchia di Saint Yousuf, nella benestante isola sul Nilo di Zamalek, in pieno centro al Cairo, è un punto di riferimento per i circa 200 eritrei che vivono nella zona. Il giorno prima una delegazione della parrocchia ha visitato il carcere di Burg el Arab, nel nord, vicino Alessandria. Hanno potuto parlare con 15 detenuti, che gli hanno consegnato alcune lettere per i familiari. Dietro le sbarre ci sono 170 eritrei. E non soltanto a Burg el Arab. Le carceri di mezzo Egitto si sono riempite negli ultimi due anni di profughi eritrei e sudanesi, arrestati nella penisola del Sinai: Qanater, al Cairo, le stazioni di polizia di el-Arish e Rafah, vicino alla striscia di Gaza, e al sud le carceri di Hurghada, Shallal, e Aswan.

È la nuova rotta della diaspora eritrea e sudanese. La meta finale è Israele. In Egitto si entra dal Sudan, via terra, oppure in aereo, atterrando al Cairo con un visto turistico. Da lì si viene portati a Isma’iliyah, nel nord, nascosti dentro dei camion, per poi essere smistati verso el-Arish e Rafah – città che grazie alla vicinanza con la striscia di Gaza vivono di contrabbando da anni – dove apposite guide si occupano del trasporto, verso la frontiera israeliana nel deserto del Sinai. Spesso le guide li abbandonano a se stessi lungo la barriera di filo spinato al confine.

Il pericolo maggiore è rappresentato dalla polizia di frontiera, che in questi casi ha l’ordine di sparare a vista. Nel 2008 Amnesty International ha denunciato l’uccisione di 25 profughi. Molte delle vittime erano cittadini eritrei. Come i due giovani feriti a morte il 17 settembre del 2007: Isequ Meles, di 24 anni e Yemane Eyasu, di 30. Entrambi avevano la carta blu dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Acnur), che gli aveva riconosciuto l’asilo politico.

A un anno e mezzo di distanza dall’omicidio, incontro due dei loro amici. Si chiamano M. e I. e mi chiedono di parlare sotto anonimato. Ceniamo insieme in un ristorante libanese di Mohandesin, al Cairo. I. è stato arrestato nel maggio del 2008. Si trovava a Isma’iliyah, era diretto in Israele. Lo presero nel più stupido dei modi. Mentre stava passeggiando, da solo, per strada. Li tenevano in celle di otto metri per cinque, in 60 persone. Per terra. Pigiati uno sull’altro. Per tutti e 60 c’era a disposizione un solo bagno. Stavano rinchiusi tutto il giorno, senza poter vedere nemmeno la luce del sole.

C’erano eritrei, sudanesi, ma anche ivoriani, nigeriani e camerunesi, perché la rotta ormai è praticata anche dai costieri. La maggior parte dei detenuti erano stati arrestati mentre attraversavano il Sinai. C’erano anche alcuni eritrei che venivano direttamente dalla Libia. Alla morte in mare e alle retate della polizia di Gheddafi avevano preferito lo Stato ebraico. Da mangiare gli davano pane, formaggio e tahina, una salsa di sesamo. I. ricorda l’odore pungente di quei giorni.

Molti soffrivano di dissenteria. Altri avevano brutte dermatiti e scabbia. E poi ricorda le umiliazioni, gli insulti e le violenze gratuite della polizia, come quella volta quando furono picchiati dopo l’inutile sciopero della fame di due giorni. I. venne rilasciato dopo 24 giorni di carcere. Lo salvò la sua carta blu dell’Acnur. Gli altri invece furono tutti rimpatriati.

Dall’11 al 20 giugno 2008 furono rimpatriati almeno 810 cittadini eritrei. Mentre dal Cairo Amnesty International lanciava grida d’allarme sulla loro sorte, a Asmara la televisione di stato Eri Tv mostrava le immagini dei rimpatriati salutandone calorosamente il ritorno. Il portavoce del governo annunciò che tutti sarebbero ritornati presto dalle loro famiglie, e che addirittura avrebbero ricevuto una compensazione di 500 nafa, circa 50 dollari. Ma non è andata così. Lo sanno bene i familiari dei rimpatriati che vivono qui al Cairo. Sono in contatto permanente con i parenti in patria. Soltanto le donne con bambini sono state rilasciate. Gli altri sono finiti dritti nei campi di addestramento militare, oppure in prigione, come nel caso di C.

C. era compagno di cella di I. nel carcere di Isma’iliyah. E faceva parte del gruppo di 800 eritrei rimpatriati nel giugno del 2008 dall’Egitto. È tornato a farsi sentire nel gennaio del 2009, sei mesi dopo. Aveva con sé il numero di cellulare di M., al Cairo, e l’ha contattato da Khartoum, in Sudan, dove adesso vive dopo essere evaso con altri tre prigionieri politici dal carcere di Weea, vicino Gelaelo. Il carcere di Weea ha una triste fame in Eritrea. Si trova in una depressione, una delle zone più calde del paese.

Tra le varie torture, i prigionieri sono spesso esposti al sole durante le ore più calde del giorno, con temperature che raggiungono i 50 gradi centigradi. M. conosce bene il carcere di Weea. C’era anche lui tra le centinaia di studenti universitari arrestati nell’agosto del 2001 dopo le manifestazioni di protesta contro la svolta autoritaria del presidente Issaias, culminate con l’arresto di 11 delle 15 personalità principali del governo e dei partiti, nel settembre 2001, la cacciata dell’ambasciatore italiano e la messa al bando della stampa indipendente. Due degli studenti morirono sotto il sole.

Non tutti i rimpatriati però sono stati portati a Weea. I disertori sono stati riportati nelle unità dell’esercito, e stanno probabilmente scontando una pena nelle carceri militari. Chi invece non ha mai iniziato il servizio di leva, è stato portato a Klima, vicino Aseb, in un campo di addestramento militare. Altri invece mancano all’appello, come decine di prigionieri politici scomparsi negli ultimi dieci anni in Eritrea.