Dal fronte afghano, ancora stragi di guerra

di Elettra Deiana
da www. womenews.net

La strage avvenuta nella provincia di Farah è tra le peggiori degli ultimi tempi ma non sarà l’ultima. In Afghanistan, in questi stessi giorni in cui la bambina Behnoonshahar Wali è stata uccisa dal fuoco di militari italiani, i soldati statunitensi, impegnati nella missione Enduring Freedom, hanno messo a segno un altro dei loro bombardamenti, annientando un intero villaggio

Come sempre, una strage di civili inermi, che va ad aggiungersi al lungo elenco di morti innocenti uccisi, di volta in volta, dal fuoco di entrambe le missioni militari attive in Afghanistan: Enduring Freedom, targata Pentagono e Isaf, targata Nato.

La prima è dichiaratamente di guerra, la seconda è malamente camuffata con belletti di aiuto civile per la ricostruzione del Paese ma è anch’essa di guerra. Su entrambe incombe il peso della strategia globale degli Stati Uniti che, in quella regione del mondo, l’avvento dell’era Obama non ha fino ad oggi in nulla ha modificato.

L’Italia è dentro la seconda, con un ruolo sempre più diretto nelle azioni di guerra mentre continuano i balletti di chi, nella maggioranza, cerca ancora di presentarla come una missione di “nation building” e chi invece apertamente dichiara che quando c’è una guerra anche noi dobbiamo fare la nostra parte.

La Nato, chiamata in aiuto di Enduring Freedom quando Bush decise la guerra contro l’Iraq e fu costretto a sguarnire il fronte afghano, in Afghanistan ci gioca la faccia e il destino se non riesce a riportare sul campo una vittoria militare e proprio per questo le sue operazioni sono in tutto e per tutto analoghe a quelle di Enduring Freedom, con seguito di civili inermi ammazzati, bombardamenti alla cieca, villaggi distrutti e inchieste promesse, che non arrivano mai a stabilire alcunché.

L’ultima strage è avvenuta nella provincia di Farah, in un territorio affidato formalmente al controllo delle truppe italiane ma presidiato ormai capillarmente da personale militare del Pentagono, che evidentemente si sente autorizzato a fare quello che vuole.
E’ tra le peggiori degli ultimi tempi ma non sarà l’ultima. La guerra in Afghanistan infatti sembra non avere fine e la scia di sangue è destinata ad allungarsi a dismisura.

Nel 2008, secondo i dati del rapporto annuale dell’Unama, la missione Onu a Kabul, il numero delle vittime civili morte per “fuoco amico” è aumentato del 31 per cento rispetto all’anno precedente e la maggior parte delle morti è causata dai raid aerei. “Guerra celeste”, che ha il vantaggio, tra le altre cose, di essere molto protettiva nei confronti delle truppe occupanti.

Ma i Taleban, fondamentalisti islamici fanatici come pochi, intenzionati a riprendersi Kabul e tutto quello che possono del Paese, non sembrano affatto scoraggiati. Anzi tracimano da tutte le parti, entrano ed escono dai villaggi come pesci nell’acqua, per la ragione semplicissima che sono gente di là, moltiplicano la loro presenza sulle zone di confine con il Pakistan, la cosiddetta zona tribale, a cento kilometri della capitale Islamabad, dove le autorità pakistane non sono in grado di esercitare nessun reale controllo.

Questa zona è sempre più animata dalla presenza di studenti coranici pachistani, Taleban pachistani, fanatici quanto i loro omologhi afghani e come quelli intenzionati a imporre sui territori da loro controllati la sharia in versione estrema.

La guerra li galvanizza da entrambe le parti, moltiplica i legami e i collegamenti tra i gruppi afghani e quelli pakistani mentre alimenta l’odio della popolazione civile verso le truppe occupanti. Barak Obama ha capito subito che ormai, in Afghanistan e nel Pakistan di Asif Ali Zardari, cosi a ridosso, non solo geograficamente, dell’Afghanistan di Hamid Karzai, il problema è lo stesso, un problema regionale e regionali pertanto dovranno essere le soluzioni da pensare e mettere in pratica.

Ma non sarà affatto facile, soprattutto perché Obama si ostina a mantenere ben salda la barra sulla guerra ed è intenzionato ad accrescere la presenza di truppe statunitensi su quel territorio. Nel discorso pronunciato il 27 marzo scorso sulla sua politica estera, Obama ha illustrato con chiarezza quale sia la sua analisi della situazione e come intenda muoversi. Il quadro regionale, con i suoi annessi e connessi, e soprattutto la necessità di un approccio regionale, sono è emersi chiaramente al punto che è stato coniato per la politica estera della Casa Bianca l’acronimo AfPak, Afghanistan/Pachistan. Ma basta l’approccio regionale?

Le ragioni delle guerre si perdono dietro la ripetitività delle quotidiane vicende di guerra e la narrazione di quello che succede, quando c’è, contribuisce grandemente, per come è messa in scena, a depistare e a far perdere le tracce di ciò che c’è dietro.
La narrazione infatti ha sempre un padrone, un punto di vista di parte, e, soprattutto oggi, dispositivi di potere mediatico saldamente sotto controllo.

Perché nel 2001 le armate americane, con i soliti volenterosi britannici al seguito, partirono alla volta di Kabul, misero in fuga i Taleban al potere, concessero fiducia illimitata ai signori della guerra dell’Alleanza del Nord (nemica interna dei Taleban) e occuparono militarmente il Paese? Ormai non è più chiaro ma neanche allora era chiaro. Perché Al Qaeda aveva abbattuto le Torri Gemelle e i Taleban ne ospitavano tra i monti afghani i campi i addestramento? Colpire tutto per punire una parte?

Perché lo “scontro di civiltà” incombeva, la democrazia era in pericolo e soltanto una guerra preventiva al terrorismo islamista poteva salvarla? Perché il burqa a cui erano costrette le donne afghane era una vergogna e bisognava salvarle? Così ebbe a dire in un “discorso alla nazione” (statunitense, ovviamente), la signora Laura Bush, nei giorni in cui partivano i cacciabombardieri del Pentagono alla volta di Kabul e così ripeterono ossessivamente molti media occidentali, che fino ad allora non si erano affatto occupati di come stessero le donne afghane sotto lo spaventoso regime dei Taleban.

Oppure, più realisticamente e fuori dalle ideologie, perché quella regione dell’Asia, “profondità strategica”, dal punto di vista statunitense, dell’iper strategico Pakistan, già da prima delle Torri Gemelle costituiva una questione dirimente della geopolitica imperiale, portata fino all’esasperazione del Nuovo Ordine Mondiale, da imporre per mano militare?

Fu la linea della presidenza Bush, come sappiamo, sanguinosa e disastrosa, che moltiplicò i bacini di odio e insofferenza verso l’occidente, offrì ragioni di consenso popolare in quei Paesi ai fondamentalisti islamisti – scontro tra le civiltà in forma di scontro tra opposti fondamentalismi – ne moltiplicò le ramificazioni e attentò in ogni Paese occidentale alla democrazia. Ne portiamo tutti i segni dell’adattamento.

La posta in gioco per gli Usa era alta: piantare bandiere in zone più avanzate di confine, per tenere sotto controllo i processi in atto, nel tumultuoso post Unione Sovietica, presidiare il territorio, in particolare tutta l’immensa zona delle ex repubbliche sovietiche, in funzione di condizionamento di quanto avviene in Paesi di grande potenza in fieri ma già in atto, come Cina e India. E avere a disposizione i dispositivi di controllo e di indirizzo sulle immense risorse energetiche dell’Asia.

Gli strateghi del Nuovo ordine Mondiale sapevano che, per realizzare la loro utopia reazionaria, bisognava procedere attraverso la logica del “disordine costituente” e l’antico motto del “divide et impera”: dividere, destabilizzare, aizzare gli contro gli altri. E’ questa l’eredità più pesante e problematica che il nuovo presidente degli Stati Uniti si trovi oggi di fronte.

A me non sembra
che la strada imboccata sia quella che possa portare veramente alla svolta necessaria sui problemi di fondo, sulle questioni che fanno veramente problema. L’approccio regionale con cui Obama affronta la questione afghana è importante e sarà tanto più importante se le relazioni degli Usa con l’Iran, Paese chiave della regione, andranno verso una svolta positiva.

Ma non basta l’approccio regionale se la mossa è dettata da un’impostazione della geopolitica asiatica che non muta e da calcoli di interesse che rimangono gli stessi.

L’Italia intanto continua a partecipare alla guerra – che è guerra, che ci volete fare, come più o meno dice qualche nostrano ministro – per ragioni di fedeltà atlantica e, soprattutto, di ottusità politica. Vizio antico, soprattutto in politica estera.

A parte le dovute eccezioni, ovviamente. Che sono sempre più rare. Il governo e gli uomini sono quelli che sono. Il dramma è che nessuno pare accorgersene.