Irlanda: aborto outsourcing

di Beatrice Ippolito
da www.womenews.net

Sono 6000 circa le irlandesi che ogni anno lasciano l’isola per recarsi in Inghilterra, oppure, grazie ai costi più contenuti, in Olanda o in Belgio per esercitare il proprio diritto di scelta riproduttiva e di accesso ai servizi sanitari per un aborto sicuro. Si tratta di una diaspora non dichiarata, anzi deliberatamente sottaciuta che espone le donne di questo paese al marchio di un esilio temporaneo e costoso per il solo fatto di essere donne, ossia di essere portatrici di una differenza di genere e, perciò, di bisogni riproduttivi e sessuali differenti.

In Irlanda, l’aborto sicuro non è un diritto ma un crimine, disciplinato da una legge inglese del 1861 che dichiarava l’aborto Reato contro la Persona e puniva i trasgressori con l’ergastolo. Ma mentre nel Regno Unito la legge 1861 venne cancellata con la promulgazione della legge di legalizzazione dell’aborto del 1967, in Irlanda è tuttora in vigore.

Per decriminalizzare l’aborto, in Gran Bretagna ci vollero 40 anni di acceso dibattito e strenua lobby a sostegno della legalizzazione.
La commissione d’inchiesta Birkett, istituita nel 1937, concluse i lavori puntando il dito contro l’aborto clandestino, principale causa di morte tra le donne, su 100.000 casi registrati ogni anno.

Nel 1939, il processo Bourne fece da battistrada a nuove direttive sia giuridiche che morali. Il dottor Bourne aveva praticato l’aborto a una quattordicenne vittima di stupro collettivo da parte di alcune guardie e poi si era costituito. L’Alta Corte sentenziò che non c’erano gli estremi per procedere in quanto il dottor Bourne aveva agito in piena legittimità perché la prosecuzione della gravidanza avrebbe messo in serio pericolo la salute fisica e mentale della ragazzina. Il dottor Bourne venne rilasciato e una breccia venne aperta in direzione della liberalizzazione. Fu una strada lunga appunto 40 anni.

Quale fosse la situazione ancora negli anni cinquanta, chiunque abbia visto il film Vera Drake, premiato a Venezia col Leone d’oro qualche anno fa, può farsene un’idea. La sentenza Bourne è ancora alla base della disciplina giuridica in materia di aborto nell’Irlanda del Nord che pure fa parte del Regno Unito. La legge 1967 che legalizzò l’aborto in Gran Bretagna non è stata, infatti, mai estesa nel Nord Irlanda dove l’aborto rimane illegale salvo i rari casi in cui il proseguimento della gravidanza risulterebbe di grave pregiudizio alla salute della donna.

Questo, nonstante le campagne del NIALRA, l’associazione nordirlandese per la legge di riforma sull’aborto, attiva sin dalla metà degli anni 80 e nonostante l’appoggio dei sindacati e il sostegno attivo dei militanti dell’Allenaza per una scelta libera, l’Alliance for Choice, costituita nel 1990, quando l’andata al governo dei laburisti faceva sperare che il governo Blair avrebbe finalmente dato seguito alle promesse fatte in campagna elettorale di estendere anche all’Irlanda del Nord i benefici della legge 1967.

Negli accordi di pace del 1998, invece, la disciplina giuridica sull’aborto venne stralciata e fatta oggetto di accordi separati tra i due principali partiti della regione, il Partito di Unione Democratica, DUP, di Jan Pasley e lo Sinn Fein di Gerry Adams, ciascuno con diritto di veto nel Parlamento nordirlandese, the Assembly, che siede a Stormont.

Il che ha voluto dire, scrive Goretti Horgan dell’Alliace for Choice nella prefazione al libro fresco di stampa, Ireland’s Hidden Diaspora- the ‘abortion trail’ and the making of a London – Irish underground, 1980-2000 ( La Diaspora nascosta – la via dell’aborto e il formarsi di gruppi operativi irlandesi di sostegno sotterraneo con base a Londra nel periodo 1980 -2000 ) , edizioni Jasc, Londra 2009, “mettere i diritti delle donne nelle mani dei Talebani Evangelici (gli esponenti del DUP, il partito di maggioranza del Parlamento dell’Irlanda del Nord)”.

Nel 2007, in seguito ad alcuni procedimenti processuali intentati dall’Associazione per la Pianificazione Familiare, Family Planning Association, il ministero della Salute fece pubblicare le linee guida in materia d’aborto dirette al personale medico. Le linee guida indicavano i casi in cui l’aborto poteva considerarsi legale ma vennero giudicate troppo liberali e revocate dal Parlamento di Stormont nell’autunno dello stesso anno.

Nel 2008 le concessioni fatte da Gordon Brown a Jan Paisley per ottenere il sostegno del DUP alla legge che prolunga di 42 giorni la detenzione di sospettati di terrorismo anche in assenza di precisi capi d’accusa, ha nuovamente spento le speranze di vedere estendere la legge di legalizzazione dell’aborto all’Irlanda del Nord promessa dal New Labour.

Le nuove linee guida diramate nell’estate del 2008 con l’avvallo dello Sinn Fein, rendono evidente che l’aborto nell’Irlanda del Nord è consentito solo se esiste un imminente pericolo di vita per la donna.

Gli attivisti dell’Alliance for Choice, indignati, promettono campagne di informazione per far sapere come stanno realmente le cose e per dire basta alla finzione che “qui l’aborto non lo vogliamo”.
Nell’Irlanda del Nord, dicono, “c’è una legge per le ricche” con circa 70 casi di interruzione legale di gravidanza all’anno e “una per le povere” che spinge 1500 donne, ogni anno, a sostenere spese da €500 a €2.000 per un aborto sicuro nelle cliniche inglesi.

Nella repubblica d’Irlanda la situazione è ancora peggiore. La legge del 1861 che criminalizza l’aborto non è mai stata abolita. Nel 1983 venne fatto passare l’emendamento a un articolo della Costituzione irlandese a difesa del diritto inalienabile alla vita del nascituro. Il diritto alla vita del non nato veniva così equiparato al diritto alla vita della donna incinta, rendendoli così potenzialmente confliggenti.

Il clamore sollevato dal cosiddetto caso X nel 1992, l’ingiunzione fatta dalla Corte Suprema di Giustizia allo stato di NON impedire che una quattordicenne, vittima di stupro e a rischio di suicidio, compisse insieme ai genitori il viaggio della speranza e del diritto a un aborto sicuro, produsse un referendum.

Si chiedeva ai/le cittadini/ne irlandesi di esprimersi se ritenessero giusto che le donne compissero viaggi all’estero per l’aborto, se fosse giusto ottenere pubblicamente le informazioni necessarie sulle cliniche sicure, i metodi praticati, le condizioni, i costi, gli indirizzi, e infine se non fosse il caso di revocare gli esiti del giudizio della Corte di Giustiza sul caso x.
E gli/le irlandesi dissero, si, andare all’estero ad abortire era un diritto, si, avere le giuste informazioni su cosa fare, dove andare, si, era un diritto e che no, revocare le decisioni della corte sul caso x, no, non era il caso.

La senatrice Ivana Bacik del partito laburista irlandese ricorda, e le brillano gli occhi a quel ricordo, come i risultati del referendum posero anche fine alla lunga battaglia legale che l’Unione Studenti del Trinity, di cui era allora Presidente, dovette sostenere contro l’associazione a difesa del nascituro, Society for the Protection of the Unborn Child che l’ accusava di distribuire materiale illegale d’informazione sull’aborto.

Gli antiabortisti tornarono alla carica nel 2002 con un nuovo referendum ma il tentativo di ripristinare la situazione ante caso x venne respinto.
Gli/le irlandesi ribadirono che il diritto a intraprendere il viaggio per l’aborto sicuro nei rari casi consentiti dalla legge andava preservato, almeno quello.

Per le 6.000 irlandesi il cui diritto all’ interruzione di gravidanza in condizioni di sicurezza non è previsto dalla legge, quel viaggio è ancora clandestino, effettuato in segretezza, reso drammatico da dilemmi morali, rischi connessi con i tempi ritardati dalla necessità di reperire il denaro necessario a fronteggiare i costi per quelle meno abbienti, dall’umiliazione e la vergogna
di dover giustificare la vacanza o la visita a sconosciuti parenti nell’infelice eventualità di trovarsi seduti fianco a fianco di facce conosciute….

Tutto documentato nel volume La Diaspora nascosta sopra citato che contiene i resoconti e i racconti di storia vissuta delle associazioni irlandesi, prima fra tutte la IWASG, l’associazione irlandese a sostegno dell’aborto, Irish Women’s Abortion Support Group, operante soprattutto a Londra per dare aiuto pratico e psicologico alle donne che, come scrive la scrittrice irlandese Marella Buckley in quegli anni “passavano il tunnel secreto in cerca di asilo e di amnestia sessuale”.

Ma questa “soluzione irlandese al problema irlandese” che altro non è che una forma ipocrita di esternalizzazione, un outsourcing dell’aborto, una “seconda partizione dopo quella della guerra civile” è umiliante e deve finire .

La pubblicazione del libro Ireland’s Hidden Diaspora , a detta della stessa autrice, Ann Rossiter, attivista del IWASG, va nella direzione del rompere il muro di silenzio e di ipocrisia. L’associazione irlandese a favore di un aborto libero e sicuro, Safe and Legal, fondata nel 2005, ha avviato una campagna in difesa del diritto di aborto allo scopo di ottenere la legalizzazione dell’aborto in Irlanda e si è mobilitata a sostegno dei casi di tre donne irlandesi che si sono rivolte alla Corte di Giustizia Europea per citare in giudizio lo Stato irlandese colpevole di discriminazione nei loro confronti.
I tempi sono maturi, dice la senatrice Ivana Bacik: è ora di rispondere ai veri bisogni di salute delle donne irlandesi e legalizzaze l’aborto è uno dei modi per farlo.