TRIBUNALI MILITARI, IL DIETRO FRONT DI OBAMA

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org

Pressato dai parlamentari democratici per delineare un piano trasparente e definitivo che conduca alla chiusura del campo di detenzione di Guantánamo entro i tempi previsti all’indomani del suo insediamento, Barack Obama ha finito per riesumare il controverso sistema dei tribunali miliari messo in piedi dalla precedente amministrazione per processare i presunti terroristi. La decisione del presidente arriva solo a pochi giorni dalla sua annunciata opposizione alla pubblicazione di una nuova serie di immagini che documenterebbero gli abusi sui detenuti da parte di militari statunitensi. Nonostante i paletti fissati da Obama per l’attività dei tribunali militari, non si sono fatte attendere le reazioni polemiche delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, già contrariate dagli stenti evidenziati dalla Casa Bianca nel rigettare completamente le pratiche al limite della legalità dell’amministrazione Bush-Cheney.

Pochi giorni dopo aver assunto i pieni poteri, assieme alla decisione di chiudere Guantánamo entro il gennaio 2010, Obama aveva congelato le attività delle commissioni militari fino al 20 maggio. Una presa di posizione che aveva alimentato le speranze di quanti auspicavano il definitivo abbandono di questo sistema introdotto dal suo predecessore nel 2006 con la firma del “Military Commissions Act”. Dopo mesi di discussioni circa la sorte dei 240 prigionieri tuttora a Guantánamo, il presidente ha invece dovuto prendere atto dell’impossibilità di istruire regolari processi nei tribunali civili americani. Da qui la decisione di resuscitare i tribunali militari, che dovranno però rispettare determinate garanzie per gli accusati, sulla base di una proposta di legge del 2006 che lo stesso Obama – allora senatore dell’Illinois – aveva appoggiato.

Le dichiarazioni di Obama nel corso della campagna elettorale erano state in ogni caso estremamente chiare circa la sorte che si sarebbe prospettata per i tribunali americani in caso di una sua vittoria alle presidenziali. Il sistema implementato da Bush era stato definito come un “enorme fallimento” e l’allora candidato democratico aveva assicurato la sua totale fiducia nella giustizia civile americana, promettendo – se eletto – di “chiudere Guantánamo, di cancellare il Military Commissions Act e di tornare a rispettare il dettato della Convenzione di Ginevra”. Nel fare marcia indietro sulla questione dei tribunali, Obama ha sostenuto invece come le “commissioni militari abbiano una lunga tradizione negli Stati Uniti” e come esse risultino strumenti “appropriati per processare nemici che violano le leggi di guerra, a patto che esse siano strutturate e amministrate in maniera propria”.

Le divisioni tra l’establishment militare e i consiglieri per la sicurezza nazione del presidente da una parte e il Dipartimento di Giustizia dall’altra sono sorte in particolare intorno alle difficoltà di giudicare presso tribunali ordinari detenuti frequentemente sottoposti a tortura, imprigionati per anni senza la formulazione di specifiche accuse oppure sulla base di testimonianze dubbie o estorte con metodi illegali. Il rischio di andare incontro ad una serie di proscioglimenti sarebbe stato quindi elevatissimo, così che il punto di vista dei generali ha finito per prevalere ed è stato fatto proprio dallo stesso presidente.

La Casa Bianca si è affrettata a ricordare come Obama avesse in passato criticato il sistema messo in piedi da George W. Bush in quanto non garantiva sufficienti diritti ai prigionieri e non in quanto demandato a tribunali militari speciali. Anche con gli aggiustamenti proposti dalla nuova amministrazione però, i detenuti accusati di terrorismo non potranno godere degli stessi diritti garantiti dal sistema giudiziario civile statunitense. Il governo americano ora cercherà una nuova sospensione per i nove casi attualmente pendenti davanti alle commissioni militari a Guantánamo per poter procedere con una revisione dell’intero sistema, così da renderlo più equo nei confronti dei prigionieri.

Le modifiche dovrebbero includere il divieto dell’utilizzo di prove estorte con metodi di tortura, la limitazione dell’uso di testimonianze rilasciate al di fuori del tribunale (“hearsay”), maggiore libertà nella scelta degli avvocati della difesa e protezione per gli accusati che si rifiuteranno di testimoniare. Le nuove garanzie per gli imputati non hanno tuttavia convinto le associazioni che si sono battute in questi mesi per l’abbandono delle pratiche della precedente amministrazione. “Non conosciamo ancora i motivi per cui le commissioni militari dovrebbero essere necessarie in una strategia per combattere il terrorismo”, ha affermato Elisa Massimino di Human Rights First. “Riesumando il fallimentare progetto di George W. Bush, il presidente Obama ha effettuato un pericoloso voltafaccia per il suo programma di riforme”, ha rincarato Kenneth Roth di Human Rights Watch.

L’ala progressista dell’elettorato democratico negli ultimi mesi aveva d’altra parte criticato altre prese di posizione di Obama e alcuni dei primi provvedimenti adottati da presidente. Nono solo l’appoggio fornito ancora lo scorso anno al programma di intercettazioni dei cittadini americani voluto da Bush, ma anche le più recenti decisioni di aumentare l’impegno americano in Afghanistan, il rifiuto di chiudere i centri di detenzione in territorio straniero – come Bagram – e di opporsi all’apertura di procedimenti legali nei confronti di quanti nella precedente amministrazione avevano giustificato gli interrogatori condotti con metodi di tortura avevano suscitato parecchie polemiche.

Nella sua decisione di ridare legittimità ai tribunali militari, Obama, oltre a sentire tutto il peso della responsabilità di un paese che ha vissuto per otto anni sotto la vera o presunta minaccia di nuovi attacchi terroristici, ha dovuto tenere conto anche delle inquietudini dei compagni di partito al Congresso. In concomitanza con l’annuncio del presidente era infatti giunta la bocciatura di un progetto di spesa di 80 milioni di dollari da parte della Camera dei Rappresentanti, destinati alla chiusura del carcere di Guantánamo, proprio a causa della mancanza di un piano sufficientemente chiaro per la sorte dei detenuti presenti nella base navale sull’isola di Cuba. Vista l’impossibilità di rispondere in tempi rapidi alle pressioni provenienti dall’interno del proprio partito, il presidente ha finito col cercare una soluzione di compromesso che contraddice però, almeno in parte, le promesse elettorali e getta una pesante ombra sul suo tentativo di ristabilire una immagine legittima degli Stati Uniti agli occhi del mondo.