Una sola razza, quella umana – Appello

di Pier Paolo Caserta, Gim Cassano

Il testo che segue esprime la grave preoccupazione per i recenti indirizzi adottati dal Governo Italiano in tema di immigrazione e diritti umani, che consolidano una lunga serie di provvedimenti legislativi ed amministrativi, di atteggiamenti e comportamenti gravemente lesivi dei più elementari diritti umani. Chiediamo a chiunque ritenga di poterlo condividere, di diffonderlo e sottoscriverlo come indicato in calce al documento stesso

La recente “svolta” voluta dal ministro (leghista) dell’Interno Roberto Maroni, e trasformata dal presidente del Consiglio in precisa volontà politica, offende i diritti naturali ed inviolabili dell’uomo, quali riconosciuti dalla Comunità Internazionale, ed oltraggia la nostra storia. E, una volta ancora, vincola, per contrasto, tutte le forze politiche che facciano propria una visione liberale dei diritti ad un programma preciso: quello di schierarsi a difesa delle Convenzioni Internazionali, della Costituzione, della civiltà europea, del diritto di qualsiasi uomo alla vita, alla sicurezza, al vivere in pace, alla salute, alla propria visione culturale, alla possibilità di progredire.

Un “richiedente asilo” è colui che è fuori del proprio paese e presenta, in un altro stato, domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, o per ottenere altre forme di protezione internazionale. Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, egli è un richiedente asilo, ed ha diritto di soggiorno regolare nel paese di destinazione. Il richiedente asilo non è quindi assimilabile al migrante irregolare, anche se può giungere nel paese d’asilo senza documenti d’identità, o in maniera irregolare, attraverso i cosiddetti ‘flussi migratori misti’, composti cioè sia da migranti irregolari, che da potenziali rifugiati.

Questa è la definizione di “richiedente asilo” che ne dà la “Carta di Roma”: un fondamentale documento approvato dall’Ordine Italiano dei Giornalisti per promuovere una corretta informazione su una materia delicata come l’immigrazione. Tale definizione si fonda a sua volta su quella datane dalla Convenzione di Ginevra del 28 Luglio 1951, che qui si riporta: “chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.

E’ essenziale, in questo testo, l’attenzione alla volontà individuale, sottolineata dai concetti di “timore” e di “volontà”. La risposta alla “richiesta di protezione” da parte delle autorità del Paese cui questa richiesta è rivolta, va quindi data sulla base del fatto che il “timore” sia o meno “giustificato”. Questa definizione fu data nel 1951, quando i problemi erano ben diversi da quelli attuali; ma, a maggior ragione, spicca la lungimiranza di tale dichiarazione. La fuga di intere popolazioni dai Paesi di origine ha sicuramente, per molti, motivazioni economiche. Ma per non pochi altri la motivazione sta nel fatto che in non poche parti del mondo, a molti non sono assicurate le minime condizioni di esistenza, per effetto diretto od indiretto di conflitti tribali, dittature, governi fondati sull’appartenenza etnica, situazioni di violenza endemica, persecuzioni religiose e razziali.

Queste definizioni mostrano quanto siano deboli e miserabili, oltre che ipocrite, le argomentazioni rese dal presidente del Consiglio, secondo il quale verrà accolto “solo chi ha le condizioni per ottenere l’asilo politico”. Non si comprende infatti come sia possibile accertare la sussistenza dei necessari requisiti se, a partire dalle acque internazionali, si rispediscono indietro le imbarcazioni senza aver loro consentito di toccar terra, ed avendo evitato di accertare se esse trasportino o meno richiedenti asilo, e con quali motivazioni. E l’ipocrisia raggiunge il culmine quando si afferma che, dopo aver respinto a partire dalle acque internazionali i potenziali “richiedenti asilo”, cosa ne avvenga dopo non è più cosa che riguardi lo Stato Italiano, in quanto sarà poi la democratica Libia ad occuparsi della faccenda. Con quali garanzie per i diritti umani ed individuali è facile immaginare.

Occorre a questo punto ricordare come gran parte di questi “migranti”, provenienti dall’Africa sub sahariana, già sono transitati per la Libia, Paese al quale si sono ben guardati dal rivolgere richiesta di asilo. In quali condizioni si sia svolto quel viaggio, vien reso noto dai racconti degli scampati; o meglio, da quanto di questi racconti riesce a filtrare sulla stampa, come fu dopo il caso della Pinar; ma è cosa ben nota alle Organizzazioni Internazionali ed ai Governi che fingono di non sapere. Si tratta di gente che è stata sistematicamente depredata di tutto, violentata, obbligata a prestare il proprio lavoro o il proprio corpo pur di andar avanti nell’esodo transahariano verso Nord.

Ritenere che in quel paese, ed in quelle condizioni, possa venir accertato lo “status” di rifugiato, in modo sia pur severo, ma giusto, è solo ipocrita utopia. Gli oggetti dei “respingimenti” italiani saranno destinati ai campi di concentramento libici, finanziati in parte dall’Italia, nei quali è regola la sottoalimentazione, usuale la violenza, e non infrequente il decesso. Ed ai quali non hanno accesso le Organizzazioni Internazionali, anche perché l’amica Libia non ha mai aderito ad alcuna convenzione al riguardo. I respinti dall’Italia finiranno con l’aver di fronte a sé due sole alternative: venir ulteriormente “respinti” nei Paesi dai quali sono partiti, con quali conseguenze è facile immaginare, o restare come schiavi in Libia. Rinverdendo così le tradizioni schiavistiche dell’Africa berbera e poi islamica nei confronti dell’Africa nera. E, giustamente, Laurens Jolles, delegato dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati ha richiamato l’Italia alle sue responsabilità che, a questo punto, non sono più solo morali ma anche giuridiche.

Ma alla radice vi è un’altra questione. Ed è il fatto che si teme che l’Italia venga “contaminata” culturalmente e razzialmente. Il capo del governo lo ha detto chiaramente: “la sinistra ha aperto le porte ad una idea che era ed è quella di un’Italia multietnica”. “Noi abbiamo un’idea diversa”. Emerge qui, con brutalità, uno dei noccioli del problema, il principale.

E’ una visione gretta e strabica, per la quale il riconoscimento di diritti ad un altro comporterebbe la riduzione dei propri: è lo stesso concetto che viene utilizzato per negare diritti alle coppie di fatto, dal cui riconoscimento giuridico deriverebbe, secondo questa visione, la riduzione dei diritti della famiglia tradizionale. Alla base di questo ragionamento sta la concezione della diversità come pericolo per l’organizzazione sociale. Si motiva e precisa così il rifiuto di un’Italia multietnica, in quanto questa distruggerebbe l’identità culturale e religiosa degli italiani. Il mantenimento di quest’identità richiederebbe, secondo questa visione, la non-presenza dei “diversi”, o quanto meno il loro isolamento in un ambito giuridicamente delimitato e subordinato, e la loro esclusione dalla sfera dei diritti. A motivazione di questo atteggiamento vengono addotte diverse motivazioni: da quelle brutalmente e francamente razziste, ad altre più subdole, ma altrettanto razziste nel metodo e nelle conclusioni, come quella della non integrabilità ed incompatibilità di culture troppo “diverse”.

Ma predomina, come argomentazione ormai trasferita dall’inconscio alla cultura ed alla politica del Paese, quella della richiesta di sicurezza
che arriva dalla società italiana, dopo aver per anni fomentato sui media la psicosi dell’identificazione dello straniero proveniente da alcune aree del mondo come persona strutturalmente predisposta al crimine per motivi di DNA; e l’esser straniero, non necessariamente extracomunitario, è diventata automatica presunzione di sospetto di in ogni indagine di polizia giudiziaria.

La questione della sicurezza, che è questione generale, e che riguarda tutti i residenti nei confini della Repubblica, viene così ad identificarsi con la questione della lotta all’immigrazione, clandestina o meno che sia, motivata o meno che sia dalla richiesta di asilo, in base al troppo facile sillogismo: meno immigrati vuol dire meno delinquenti. E si pensa così di poter risolver la questione col sigillare le frontiere, negando l’applicazione dei principii umanitari universalmente riconosciuti, ed applicando una sistematica negazione dei più essenziali diritti, sino a configurare, in certe aree del Paese, punte di sistematiche ed oltraggiose politiche di apartheid, che riguardano anche gli immigrati “regolari”. La giusta richiesta della conoscenza della lingua, delle leggi, che molte altre democrazie applicano sì, ma in modo inclusivo, mettendo a disposizione degli immigrati strumenti educativi e formativi, diviene in Italia strumento e motivazione di esclusione, non essendo disponibile nel nostro Paese alcun canale di integrazione culturale; che d’altra parte, oramai si dichiara apertamente di voler impedire.

Il recente varo del DDL “sicurezza” esemplifica bene questa situazione. I CIE, ex CPT, nei quali la sostanziale detenzione durerà sino a 6 mesi, non sono posti nei quali agli internati, senza distinzione di status tra richiedenti asilo, irregolari appena arrivati, o “sans papiers” inviativi successivamente al loro arrivo in Italia, si insegni alcun rudimento della lingua e delle leggi italiane: sono soltanto carceri in attesa del carcere, quello vero, o dell’espulsione, nelle quali viene fornita un’assistenza sanitaria carente, nessuna assistenza o consulenza legale, un’alimentazione insufficiente, nessun rispetto.
La negazione di diritti diviene evidente; ed è stato messo in moto, benché attenuato rispetto alle proposte iniziali, un meccanismo in base al quale qualsiasi immigrato tenderà ad evitare il più possibile il contatto con ogni forma di struttura pubblica, vedendovi il rischio della denuncia. Ne seguirà, inevitabilmente, lo sprofondare nell’arcipelago illegale o criminale, del lavoro nero, dell’affitto nero, del fornir bassa manovalanza alla criminalità.

Tutto ciò colloca l’Italia in una posizione anomala rispetto al resto d’Europa dal punto di vista del rispetto delle Convenzioni Internazionali e del rispetto dei diritti umani, quali generalmente riconosciuti in tutto il mondo civile. Oltre a questo, quella del governo italiano è una posizione che confligge con la storia del nostro Paese e con quella europea. Sarebbe opportuno ricordare che l’intera l’Europa, ed anche i singoli Paesi che la compongono, hanno forti caratteri multietnici: che sia per effetto di invasioni pacifiche o no, lontane o vicine nel tempo, per effetto di scambi commerciali, di lavoro, di trasferimento dei produttori di cultura, l’Europa che noi conosciamo è andata costruendosi sulle contaminazioni, etniche e culturali, e l’Italia non è da meno. E non è inutile, al riguardo, ricordare l’epopea della nostra emigrazione.

A tal proposito, giova ricordare che nel resto d’Europa nessun governo, di destra quanto si vuole, si oppone alla “società multietnica” in quanto tale. Si prenda, per esempio, la Germania del cancelliere Angela Merkel, le cui politiche sull’immigrazione, conformemente alla linea politica della Grosse Koalition, sono sempre state finalizzate all’inclusione. Ma anche all’interno di un quadro generale che, in Europa, sta attuando misure molto restrittive nei confronti dell’immigrazione, l’interpretazione del governo italiano resta del tutto preoccupante, in quanto non viene motivata dalla preoccupazione per le difficoltà economiche e sociali che indubbiamente forti flussi immigratori pongono, ma viene motivata e gestita come una questione “razziale”. Il “non vogliamo una società multietnica”, detto dal Capo del Governo, e non da un manifestante di destra, significa questo.

La recente “svolta”, sancita dal pieno avallo del governo lascia presagire involuzioni che devono destare la massima preoccupazione in chiunque abbia a cuore i diritti. Non solo i diritti dei migranti: i diritti di tutti. Vogliamo al riguardo ricordare la lapidaria parola che Albert Einstein, arrivando negli USA come esule dalla Germania nazista in quanto ebreo, ebbe a scrivere sul modulo dell’Ufficio Immigrazione ove veniva richiesto di indicare la propria razza: “UMANA”.

Alla cultura della purezza etnica, che ha ben tristi e dolorosi precedenti, occorre opporre una visione aperta ed inclusiva, fondata sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri e non sulla carità. Tra diritti e carità vi è la differenza sostanziale che i primi sono relativi all’uomo in quanto soggetto giuridico cosciente ed autonomo; la seconda, all’uomo in quanto essere vivente. Nel clima di indistinto disprezzo che oggi circonda chiunque provenga da determinate aree geografiche o appartenga a determinate etnie, le posizioni che la Chiesa Cattolica ha assunto al riguardo non sono da sottovalutare. Ma carità od assistenza non fanno di un essere umano un Uomo, quando non siano accompagnate dall’attribuzione di diritti e doveri, e dalla consapevolezza degli stessi.

Resta, ovviamente, il “che fare?”. L’unica nota di realismo che arrivi da questo Governo sta nell’affermazione che il peso della questione dell’immigrazione, clandestina o motivata con la richiesta dello status di rifugiato, non possa venir fatto gravare solo sui Paesi più vicini alle coste africane: Spagna, Italia, Malta, Grecia. Su questo, siamo d’accordo. La questione dell’immigrazione sarà uno dei temi centrali degli anni a venire: il volerla contrastare combattendola frontalmente alle frontiere e negando diritti all’interno è pura utopia, che non risolve il problema, e creerà solo le condizioni per uno scontro di civiltà tra i ricchi ed i poveri del Mondo Antico ed il conflitto interno tra i poveri e gli ancor più poveri. E le politiche di negazione dei diritti essenziali e dell’integrazione non potranno portare ad altro risultato che a quello di alimentare le fila del disadattamento sociale, dei fondamentalismi anti-occidentali, dell’illegalità, della criminalità.

Nel dibattito europeo, più che in Italia, esiste lo spazio, politico e pubblico, per rappresentare con forza e saldare tra loro i temi dell’inclusione, del rispetto dei diritti e dei principii internazionalmente riconosciuti, della libertà di culto, della laicità, del rispetto delle regole democratiche. E per individuare soluzioni comuni e condivise, che tengano conto delle difficoltà che un’immigrazione di massa crea, ma che non fondino sul principio razziale gli interventi che si dovranno adottare per governare il fenomeno.

Perché non c’è alcun dubbio che questo fenomeno vada controllato e governato, in maniera omogenea in tutta Europa, per l’elementare ragione che la logica delle barriere non regge sul medio periodo, e non è neanche pagante. E che questa logica inutile, non può essere adottata se non facendo ricorso a misure anti-umane che, in quanto tali, non possono trovar altra premessa che quella della presunzione dell’inferiorità razziale ed altro criterio che quello della separazione razziale. E’ quest’ultima, purtroppo, la strada imboccata dal governo italiano, ed è questo il punto essenziale che ci distingue dal resto d’Europa. Dove, invece, il fenomeno, pur essendo regolamentato e, in alcuni casi, contrastato a causa delle conseguenze economico-sociali che esso produce, e delle quali un qualsivoglia governo non può non tener conto, non viene visto dai governi in termini di appartenenza razziale. Non si tratta di “aprire” le frontiere a chiunque voglia entrare in Europa.

Si
tratta invece di:
1- trattare chiunque nel rispetto pieno delle Convenzioni Internazionali e più generalmente, della dignità e dei diritti umani.
2- Distinguere, anche nei CIE, tra “richiedenti asilo”, internati in attesa di espulsione, e recidivi.
3- Allargare le condizioni per la legalizzazione.
4- Agire contro le organizzazioni che gestiscono il traffico dei “clandestini” e contro coloro che ne sfruttano il lavoro, lecito o illecito che sia.
5- Fornire a chiunque arrivi in Italia la possibilità di avere a disposizione adeguati strumenti per la propria tutela: da un minimo di conoscenza della lingua, alla possibilità di avvalersi di idonea assistenza legale.
6- Non rifiutare ad alcuno, regolare o no che sia, la possibilità di accedere ai servizi pubblici essenziali: sanità, istruzione, giustizia; quella di poter creare ed allevare famiglie regolari; e quella di accedere al lavoro regolare.

Istanze, queste, che devono essere portate e rappresentate anche in Europa per dire con forza al mondo civile che, con buona pace dei sondaggi citati dal Cavaliere, esiste una parte grandissima dell’Italia che sceglie la civiltà contro la barbarie. Un’Italia che crede in una visione diversa dell’immigrazione. Consapevole che una buona integrazione richiede lunghi e pazienti sforzi per venir costruita, e che non è possibile veder risultati nel breve termine. Ed altrettanto certa che quella che si sta seguendo non è la via giusta per costruire: l’integrazione si fonda su diritti e doveri riconosciuti, e nel dir questo siamo certi di non peccare d’ingenuità.

Sappiamo benissimo, infatti, che molti immigrati, arrivati in Italia, cadono nella spirale del crimine. Ma questo avviene in primo luogo perché le prime e più efficienti agenzie che si occupano della loro “accoglienza” sono le organizzazioni criminali, di matrice italiana e non. Contro di queste occorre agire, con severità e determinazione. La “cattiveria” auspicata dal Ministro dell’Interno Maroni non va riservata agli indifesi, ma a coloro che traggono vantaggio dalla condizione di soggezione nella quale questi si trovano a causa della negazione di diritti e di qualsiasi possibilità di integrazione che viene loro riservata. Le prime vittime di questa situazione, in Italia, sono gli onesti, ai quali viene sistematicamente resa la vita impossibile: poche possibilità, lavoro nero, sfruttamento, abitazioni fatiscenti, segregazione, difficoltà di praticare le proprie religioni.

Ed occorre, al riguardo, osservare che queste condizioni, ed il clima di “apartheid” che si è creato nel Paese, non fanno alcuna distinzione tra immigrati “regolari” ed “irregolari”. Il negare la costruzione di una moschea, così come il proporre la segregazione sui vagoni della Metropolitana di Milano, non fanno distinzioni al riguardo: ciò offende e nega diritti agli uni come agli altri. Da tutti, lo Stato Italiano, deve esigere il rispetto incondizionato della propria legge penale, civile, fiscale. Da tutti, la società italiana deve esigere il lavoro e la partecipazione all’economia del Paese. Ma, se si vuole questo, si devono creare le condizioni minime perché ciò possa avvenire.

Chi, individuo o soggetto collettivo, intenda dare la propria adesione al testo che precede, può farlo inviando al seguente indirizzo: unasolarazza@gmail.com un messaggio contenente nome e cognome ed indirizzo e-mail.