L’anno caldo dell’università

di Giuliano Garavini
da www.aprileonline.info

Le proteste di questi giorni contro il G8 sull’università a Torino sono meno forti di quelle esplose nell’autunno-inverno scorso che hanno dato al movimento degli studenti il nome di “Onda”. Non per questo sono meno benvenute perché riportano l’attenzione su un mondo, quello universitario, che partecipa appieno della crisi del modello di sviluppo che sta colpendo l’economia occidentale

Il mondo universitario è stato recentemente oggetto di dure critiche da parte dei teorici della meritocrazia come Roberto Perotti che, nel suo L’università truccata, ha teorizzato che rispetto alla sua qualità, l’università italiana è fin troppo ricca. Questi pensatori bocconiani hanno guardato con una certa simpatia a tagli che andassero di pari passo con una moralizzazione e una maggiore produttività del mondo universitario: eliminazione delle dinastie familiari e baronali, controllo della produttività scientifica, finanziamenti alle singole università in base alla produttività, in prospettiva abolizione del valore legale del titolo di studio e conseguente competizione fra università per i migliori cervelli, differenziazioni salariali, fino all’obiettivo supremo della privatizzazione del sistema universitario.
Le teorizzazioni di Perotti e di altri come lui, che pur svelano una serie di dati interessanti sul nepotismo universitario nonché su fenomeni come gli scatti automatici di carriera indipendentemente da qualsiasi controllo sul lavoro, hanno il limite che il rimedio prospettato sembra peggiore dei mali.

La privatizzazione dell’università, in un capitalismo italiano senza capitali, non risolverà certo i mali di una spesa per studente fra le più basse dell’OCSE, del rapporto tra professori e studenti più alto d’Europa, della scarsa internazionalizzazione, dei tagli ai fondi, dell’aumento degli squilibri fra le zone del nostro Paese.

Nella suo confuso turbinio dell’anno scorso l’Onda è sembrata rifiutare il modello anglosassone dell’università privata, fondato sulle poche eccellenze in un prato di mediocrità: un modello dal quale lo stesso Obama ha preso le distanze per il modo in cui costringe gli studenti a doversi indebitare per tutta la vita con le banche per accedere alle migliori università. Ha rifiutato che gli atenei italiani venissero messi in competizione l’uno contro l’altro con il risultato di generare regioni d’Italia di serie A e di serie B. Gli studenti hanno sentito addosso la pressione proveniente dal tritacarne dell’impresa e del mondo del lavoro per finanziare maggiormente quei corsi più richiesti dalle imprese, i ritmi convulsi di esami che valgono a credito, il paradosso di un sistema che costringe a ritmi accelerati e che non dà alcuna prospettiva in un modo del lavoro dove si passa dal volontariato, agli stage con rimborso spese, a stipendi da fame, per poi tornare alla fame con le pensioni risultanti dai miseri contributi versati. Si è dibattuto in affollate assemblee di criteri democratici di valutazione per la produzione universitaria, della libertà del sapere e della ricerca, dell’abolizione degli stage non pagati presso le aziende già negli anni universitari, del modello di welfare per il futuro.

Se l’università non è di qualità, e la nuova università funziona secondo un meccanismo perverso che ne scaccia la qualità in favore dei numeri dei laureati, l’istruzione cessa di essere uno strumento di promozione sociale per divenire un parcheggio e una semplice ratifica della struttura sociale esistente. Ma l’Onda ha solo sfiorato il problema che tutta la riforma dell’università del 3 più 2, con il conseguente aumento di corsi di laurea e delle sedi distaccate, è stata realizzata grazie alla creazione di uno sconfinato mondo di precariato universitario.

Io sono convinto che proprio da questo mondo del precariato universitario possano venire iniziative in grado di fornire risposte e scoperchiare le contraddizioni del mondo universitario italiano di oggi. Oggi, una figura che doveva essere marginale, quella dei professori a contratto, è divenuta una delle strutture portanti del mondo universitario. Secondo le stime del MIUR per il 2007 la docenza a contratto incide ormai per il 30-40 per cento sui corsi di laurea, arrivando a comprendere un esercito di 52.051mila contrattisti, dei quali solo 2000 sono appartenenti al ruolo di docenti in altre università. Questo a fronte di un totale fra ricercatori, associati e ordinari (gli strutturati) di 61.929 unità.

I professori a contratto svolgono, in sostanza, le stesse mansioni degli strutturati: insegnamento frontale, ricevimento degli studenti, esami, seminari, e questo per materie fondamentali e spesso obbligatorie anche nei primi anni di corso. Vengono formalmente valutati dagli studenti per il loro lavoro, percependo per questa attività compensi compresi fra gli 0 (è successo anche questo per esempio a “Cesare Alfieri” e “la Sapienza”) e un massimo 2600 euro lordi per un corso di 5 crediti o 5000 per uno di 10, che li impegna per tutto l’anno in almeno 4 sessioni di esami.
Nel 2005 le spese per il personale docente “a tempo indeterminato” sono state pari a 3.364.305.000 euro, mentre quelle per il personale docente “a tempo determinato” sono state di 165.340.000. In altre parole: a fronte del fatto che i docenti a contratto sono in numero pari all’80 per cento dei docenti strutturati, la spesa nei loro confronti è pari a circa il 4 per cento di quella prevista per i
colleghi strutturati.

La moltiplicazione di questa particolare forma di precariato universitario è uno dei pilastri sul quale si sono create università, corsi di laurea e sedi senza risorse. E’ una situazione che spinge inevitabilmente allo scadimento della qualità. E come reazione a ciò si sta già sviluppando una tendenza alla creazione di “poli di eccellenza”, “dottorati di eccellenza”, per distinguersi dalla massa e accedere i modo privilegiato al finanziamento pubblico e privato. Non tutti questi professori precari hanno eguali interessi, molti aggiungono quello universitario ad altri lavori, altri hanno accumulato due o tre corsi ed hanno paura di perdere questa piccola fonte di reddito. D’altra parte se si riuscisse a organizzare una forma di lotta per una parte importante di questi professori, e se l’obiettivo non fosse come alla fine degli anni Settanta quello perdente della assunzioni “ope legis” ma semplicemente quello di ottenere paghe e diritti simili a quelli di chi fa lo stesso lavoro, ciò potrebbe mettere l’università di fronte al modo in cui essa si sta sviluppando, senza investimenti sui suoi giovani, con al creazione di figure precarie molto subordinate nella gerarchia accademica e quindi necessariamente imbelli, dando vita a sedi e corsi indegni di un sistema universitario che si crede avanzato.