In Svizzera il testamento biologico diventa legge. E la Chiesa non si oppone

di Fabio Poletti
da La Stampa, 21 maggio 2009

Un secolo fa in Svizzera era consentito aiutare chi voleva suicidarsi per motivi di onore. Un secolo dopo, discutere sul diritto alla vita e alla propria morte, non scandalizza più nessuno. E’ una consuetudine. E’ diventata una legge che all’articolo 370 del codice civile appena riformato, stabilisce: «Chi è capace di discernimento, può designare i provvedimenti medici ai quali accetta o rifiuta di essere sottoposto nel caso in cui divenga incapace di discernimento». In Italia, se ci fosse, si chiamerebbe testamento biologico. In Svizzera lo hanno voluto chiamare direttive anticipate e non fa la differenza. Olivier Guillod, docente di Diritto privato all’università di Neuchatel ed esperto della Commissione bioetica nazionale che ha elaborato il testo, dice che alla base di questa riforma del codice c’è un principio di autodeterminazione: «In alcuni Cantoni come nel Vallese questa legge c’è dal ‘95.

Adesso è un dispositivo che vale per tutta la Confederazione. Il medico è vincolato alle richieste del paziente, fatta salva l’obiezione di coscienza». La legge entrerà in vigore il primo gennaio 2012 perché tutti i Cantoni devono attrezzarsi. In questi tre anni la riforma ha ugualmente effetto, nel caso di un contenzioso si va davanti a un giudice. I tre mesi di tempo per chiedere un referendum abrogativo sono appena scaduti senza che qualcuno raccogliesse le 50 mila firme necessarie per bloccare la riforma. Non le ha raccolte chi teme che questa sia una strada per fare diventare la Svizzera come l’Olanda, dove l’eutanasia è autorizzata. Non chi ha paura che la Svizzera, dove aiutare un suicida non è reato se lo si fa per motivi compassionevoli, diventi la patria della buona morte. Non la Chiesa che in ogni parte del mondo si batte per la sacralità della vita.

Il teologo protestante Frank Mathwig sembra un laico, tanto difende i principi religiosi quanto accetta il dialogo sul diritto all’autodeterminazione: «Le norme morali non possono essere estranee alle situazioni concrete. Si tratta di tollerare le situazioni estreme». I giuristi della Commissione bioetica svizzera dicono che nel loro Paese casi come quelli di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e Terri Schiavo non sarebbero stati nemmeno casi. Secondo il settimanale elvetico Hebdo oltre l’80% degli svizzeri condividono la scelta del legislatore sulle direttive anticipate ma solo il 10% le ha già scritte. Un numero comunque alto in un Paese dove 3000 persone si uccidono ogni anno, su una popolazione di 7 milioni di abitanti. Di questi 3000, quasi 300 sono suicidi assistiti. Di questi 300, quasi 50 vengono da oltre confine. Eppure anche se a Neuchatel 150 persone al giorno visitano la mostra assai esplicita sulle cure palliative organizzate dalla Fondazione Chrysalide – «Se un giorno io muoio», il titolo; la foto di due piedi in avanti, il manifesto – qualche paura ad una eccessiva consuetudine alla morte rimane.

Centri come Exit e Dignitas che assistono i suicidi potrebbero essere sottoposti a maggiori controlli legislativi. Nel cantone di Vaud con capitale Losanna, Exit contrattacca e promuove una raccolta di firme per togliere i finanziamenti pubblici a quegli hospice che non prevedono il suicidio assistito. Alberto Bondolfi della Commissione nazionale di etica per la revisione dei diritti di tutela, racconta che si stanno studiando progetti per regolamentare in modo rigido il suicidio assistito ma che al di là della legge ogni caso sarà un caso a sè: «Nessun medico ad esempio saprà dire se le volontà anticipate da un malato di alzheimer sono autentiche o indotte dalla malattia».

Malgrado qualche dubbio che pure serpeggia in chi ha discusso per dieci anni questa riforma del codice, c’è chi come Suzanne Brauer della Commissione nazionale etica per la medicina difende prima di tutto i principi di base: «Dietro a questa riforma del codice c’è un principio fondamentale che allarga l’autonomia dei pazienti. E’ uno strumento per razionalizzare la volontà di ognuno. Il rapporto tra medico e paziente diventa un rapporto mandatario. Una cosa impensabile solo trenta anni fa». Una cosa che alla fine magari poco importa a una qualunque Griselde R., accompagnata ad una dolce morte con le cure palliative della fondazione Chrysalide, di cui non sappiamo nulla per la sua privacy, se non le ultime parole di una poesia così delicata da fermare il cuore: «Scivola mia piccola morfina, come un bianco e dolce ermellino».

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«Abbiamo scelto il dialogo che è mancato in Italia»
intervista a André-Marie Jerumanis a cura di Fabio Poletti

André-Marie Jerumanis è medico e sacerdote, docente di Bioetica e Teologia all’Università di Lugano, fa parte della Commissione Bioetica dei vescovi svizzeri.

Professor Jerumanis, la Chiesa cattolica svizzera è intervenuta nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate di fine vita?

«Non c’è stata una posizione ufficiale sulla legge ma la Chiesa cattolica elvetica non è contraria in linea di principio alle dichiarazioni di fine vita. Sono anche uno strumento per discutere della morte,
uno dei tabù della nostra società».

Questo vuol dire che la Chiesa cattolica elvetica, avalla ogni pretesa di chi sottoscrive una dichiarazione anticipata?

«Non c’è un diritto alla morte. Non si può chiedere allo Stato di aiutare a morire. Ma ci sono situazioni in cui la Chiesa non interviene, anche se non può accettare quello che sta accadendo. La Chiesa ha il dovere di educare le coscienze. Ha il compito di evitare ogni riduzionismo del valore della vita umana. Non è un caso se in una società meno solidale aumentano le richieste di morte e i suicidi. E di fronte ad ogni situazione come questa, siamo davanti ad una disfatta della società».

Uno dei principi cardini della Chiesa cattolica è la sacralità della vita. In Svizzera e in altri Paesi europei il suicidio assistito è regolato da norme giuridiche…

«La Chiesa non lo accetta. Per noi gli individui non vanno lasciati soli davanti alla morte. Sosteniamo anche l’importanza delle cure palliative che alleviano il dolore e accompagnano alla morte. La Chiesa teme la deriva irrefrenabile che mette in discussione il valore della vita. Il rischio è quello di pensare che ciò che è legale diventa automaticamente etico».

Esponenti della Chiesa protestante elvetica sostengono che determinate situazioni non possono essere legittimate a livello teologico ma vanno affrontate tenendo conto del caso concreto. E’ anche la posizione della Chiesa cattolica?

«La nostra posizione è quella del dialogo. Ai due estremi ci sono due valori assoluti: l’affermazione dell’autodeterminazione e la vita che va preservata. In Svizzera su questi temi non c’è mai stata la cultura del muro contro muro».

In un caso come quello di Eluana Englaro, la vostra posizione quale sarebbe stata?

«Per la Chiesa si tratta di elementi basilari. Non si tratta di accanimento terapeutico».

In Italia il dibattito sulla fine vita va avanti da anni, a fatica e tra mille polemiche. Come lo vede lei dalla Svizzera?

«In Italia c’è una eccessiva contrapposizione tra laici e cattolici che non permette di arrivare a una sintesi giuridica. Da noi non c’è una demarcazione così netta tra fede e credo laico»