Oltre la legge di natura

di Giannino Piana
da “Mosaico di pace”, maggio 2009

Le grandi tematiche etiche che sono oggi al centro del dibattito pubblico nel nostro Paese (e che
vengono solitamente qualificate come “eticamente sensibili”) esigono, per essere seriamente
affrontate, un approccio globale di carattere culturale. Le differenti soluzioni che ad esse si danno
non dipendono, infatti, semplicemente da opzioni di ordine tecnico, ma rinviano, più
profondamente, alle diverse concezioni dell’uomo, del mondo e della vita alle quali, esplicitamente
o implicitamente, ci si riferisce.
È questa la ragione per cui un ruolo centrale assume la “questione antropologica” sulla quale la
Chiesa richiama frequentemente l’attenzione, sottolineando – e non a torto – che essa è,
paradossalmente, presente (e gioca un ruolo determinante) anche nell’ambito di quelle posizioni che
formalmente tendono a negarne la consistenza. È allora importante far luce sulla concezione antropologica
che soggiace ai documenti magisteriali più recenti – quelli romani soprattutto — per
evidenziarne legittimità e limiti e per ipotizzare, se possibile, una prospettiva di approccio più
articolata, in grado di meglio interpretare le domande scaturenti dalla situazione attuale e di offrire
loro risposte eticamente adeguate.
la “natura”
Il concetto che, nell’ambito del magistero cattolico, viene privilegiato nell’accostare le tematiche
etiche ricordate è quello di “natura”. Da esso discendono immediatamente le categorie di “legge
naturale” e di “diritto naturale”, che divengono i criteri normativi in base ai quali valutare il comportamento
umano. Non si può negare che l’istanza soggiacente all’idea di “natura” (e di “legge
naturale”) abbia acquisito ai nostri giorni grande attualità. Le manipolazioni, sempre più consistenti,
dell’ambiente e della vita umana, prodottesi negli ultimi decenni grazie alla rapidissima evoluzione
del progresso tecnologico con esiti talora allarmanti – si pensi soltanto alla gravità della crisi
ecologica e ai rischi connessi con la modificazione del patrimonio genetico umano – rendono evidente
la necessità di fissare un limite all’intervento dell’uomo nei confronti di se stesso e del mondo
circostante.
D’altra parte – in questo sta il paradosso – all’attualità di tale istanza corrisponde un’assoluta
inattualità della categoria di “natura” (e di “legge naturale”) divenuta del tutto anacronistica,
essendosi storicamente connotata di una valenza essenzialista e fissista, che la rende inadeguata a
interpretare le dinamiche culturali proprie dello sviluppo umano. Il giusnaturalismo moderno è,
infatti, caratterizzato da una concezione “naturalistica” della natura, che fa riferimento in senso
esclusivo al dato biofisico e che rinvia, come ultima giustificazione, al principio di autorità.
A questa concezione si è riferito in passato (e si riferisce spesso tuttora) il magistero ecclesiale per
ribadire con forza il proprio “no” al riconoscimento di nuove forme di famiglia (le quali finirebbero
per minacciare la “famiglia naturale”), alla legittimazione del comportamento omosessuale (definito
per questo “contro natura” o come oggi si usa dire, con un linguaggio più soft ma in realtà
sostanzialmente identico, “deviante”) e per condannare alcune forme di manipolazione nei confronti
della vita (tanto nella sua fase di insorgenza che in quella terminale), giudicate “innaturali”, perché
lesive di leggi biologiche che regolano i cicli della natura. Il rimando alla “legge naturale” presente
anche in recenti documenti del magistero, nonostante alcune dichiarazioni di intenti di segno
diverso, è sostanzialmente riconducibile a questa interpretazione. Il concetto di “natura” sottostante
a tali documenti è, infatti, un concetto tendenzialmente “statico” e “sacrale”, che non fa debitamente
i conti con il carattere storico e culturale proprio dell’esperienza umana; ma è soprattutto un
concetto riduttivo che, identificando essenzialmente la natura umana con il dato biologico (e la
legge naturale con il rispetto dei dinamismi propri di questo dato), finisce per fare propria una
visione positivista.
quale antropologia?
Il superamento di questa posizione è costituito dall’abbandono di un concetto di “natura” (e di
“legge naturale”) come quello esposto (senza venire meno per questo all’esigenza di tutelarne
l’istanza positiva sottesa) e dalla sua sostituzione con un concetto più ampio e specifico, quello di
“umanità” (humanitas), che consente di salvaguardare la specificità dell’umano, distinguendolo
qualitativamente da ogni altra realtà infraumana. Questo concetto, che rinvia all’esistenza di un dato
originario e sottolinea, nel contempo, il valore decisivo del fattore culturale, consente infatti di
evitare tanto la caduta in un fissismo naturalistico quanto l’accettazione acritica di ogni forma di
intervento manipolativo.
Ma il vero salto di qualità è costituito dalla restituzione di centralità in ambito antropologico all’idea
di “persona”, in quanto realtà complessa e pluristratificata alla cui costituzione concorrono un
insieme di elementi, che ne definiscono l’identità – dall’individualità alla relazionalità, dalla dimensione
corporea a quella spirituale, ecc. – e ai quali fanno riferimento istanze diverse che si
sviluppano a livelli diversi: da quello biologico a quello psichico, da quello relazionale a quello
spirituale. La presenza di tali istanze, talora in conflitto tra loro, esige la messa in atto di un
discernimento rispettoso di un ordine gerarchico ben definito che comporta talora il sacrificio
dell’istanza inferiore a favore di quella superiore, nella prospettiva della ricerca del “bene possibile”
che sta tra l’ideale verso il quale occorre sempre tendere, e la realtà con la quale è necessario fare
costantemente i conti. Il richiamo alla “natura” come infrastruttura irrinunciabile dell’umano non va
dunque del tutto disatteso; ce lo ha ricordato in alcuni suoi scritti recenti lo stesso Jurgen Habermas,
non certo sospetto di vicinanza a posizioni di stampo giusnaturalistico. Ma la natura umana (o
humanitas) – è bene ribadirlo -in quanto “natura personale” ha uno spettro assai ampio di
espressione di potenzialità, che affondano le loro radici nella “cultura” in quanto elemento distintivo
dell’umano. Il rinvio esclusivo al dato biologico, oltre a non cogliere la specificità dell’umano, rende
impossibile l’accostamento a una serie di processi culturali attualmente in corso.
La presenza di nuovi modelli di “famiglia” (la storia ci ricorda, d’altronde, che non si tratta di una
novità assoluta: molti sono i modelli di famiglia in passato succedutisi), l’attenzione sempre
maggiore al “genere” (gender) come fattore culturale piuttosto che al “sesso” come fattore
biologico, la possibilità di interventi sempre più sofisticati sulla vita dell’uomo grazie all’enorme
evoluzione tecnologica in campo biomedico, sono altrettanti segni del progresso culturale (nel senso
etimologico del termine: dal verbo latino colere = coltivare, manipolare) realizzato dall’uomo nel
corso della storia. Certo, non tutto ciò che è avvenuto (e avviene) è positivo: ogni conquista umana
contiene sempre aspetti di ambivalenza. Si tratta di vigilare costantemente sulle diverse
interpretazioni e sui diversi interventi, vagliandone di volta in volta le conseguenze con senso
responsabilità, al di fuori di ogni sterile pregiudizio, ma anche di ogni pericolosa fuga in avanti.