Africa bazar: spaccio di terre

di Sara Milanese
da www.nigrizia.it

Vendesi terra africana ricca, fertile, scontata e poco sfruttata, completa di manodopera a basso costo. Ideale per garantire la sicurezza alimentare in caso di nuove crisi mondiali. In cambio cercasi prospettive di sviluppo anche pallide e senza garanzie. Offerta rivolta soprattutto a governi orientali senza scrupoli.

I nuovi proprietari dell’Africa sono indiani, cinesi, arabi, sudcoreani. I governi africani stanno vendendo loro la terra migliore, quella coltivabile. Il vertiginoso aumento dei prezzi degli alimentari prima, e la crisi economica poi hanno fatto tremare le vene dei polsi a Dehli, Rihyad, Pechino, Seul: il cibo non sarà “a buon prezzo” per sempre. La necessità di intensificare la produzione agricola ha spinto questi paesi, accomunati dalla voglia di crescere e dalla fame di materie prime, a cercare nuovi spazi, non ancora sfruttati a dovere, per assicurarsi un rifornimento di riso, mais, palme da olio.

L’Africa sembra proprio la risposta alle loro esigenze: ricca, fertile, non sfruttata per mancanza di mezzi, e soprattutto, a prezzi stracciati. Un granaio a cielo aperto. Tanto che le vendite e le concessione dei governi africani agli investitori stranieri sono in aumento. Un fenomeno che non è passato certo inosservato: due agenzie Onu per l’agricoltura, FAO e IFAD, con l’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (IIED), ci hanno dedicato uno studio focalizzando la situazione in 5 paesi africani: Sudan, Etiopia, Madagascar, Ghana, Mali.

Il rapporto, intitolato ‘Land Grab or development opportunity?‘ ( “Incetta di terre o opportunità di sviluppo?”) è stato presentato lunedì 25 maggio, e lancia moniti preoccupanti: 2,41 milioni di ettari di terreno venduti negli ultimi 5 anni, nei soli paesi in esame. Un vero e proprio “neocolonialismo”, soprattutto perché nella maggior parte dei casi i contratti sono svantaggiosi per i cittadini africani.

Khartoum, Addis Abeba, Accra, Bamako, Antananarivo hanno svenduto, in omaggio con l’acquisto della terra, anche la manodopera per coltivarla, cioè i contadini, in cambio di vaghe promesse della creazione di nuovi posti di lavoro e di infrastrutture: nei testi dei contratti non ci sono clausole vincolanti o precise, secondo lo studio, che prevedano iniziative concrete da parte degli investitori, neppure che riguardino il controllo o la verifica degli impegni sottoscritti. La durata delle concessioni è di 30, 40, anche 90 anni, ma gli accordi prevedono affitti ridicoli: dai 2 ai 10 dollari per ettaro, in Sudan o in Etiopia.

Non tengono conto della complessità economica e sociale delle realtà africane, sono appiattiti sulle esigenze spicce degli investitori; nessun riferimento nemmeno alla sicurezza alimentare delle popolazioni locali, alle quali viene destinata solo una minima parte dei raccolti. Le prospettive non promettono niente di buono, anche se le agenzie delle Nazioni Unite sottolineano come in questo modo molti dei terreni non sfruttati diventeranno produttivi. Il che significa anche impianti di irrigazione e allacciamenti di energia elettrica, e posti di lavoro, ma solo come bassa manovalanza: la gestione è affidata a tecnici e amministratori che vengono dall’estero.

Gli africani stanno velocemente perdendo il loro bene più prezioso: la terra. Che potranno lavorare e non possedere, e di cui mangeranno i frutti solo in parte. E con la terra rischiano di perdere anche altre risorse, a partire dall’acqua. Senza contare le consuetudini legate alla pastorizia, all’allevamento, alle attività di raccolta tradizionali. E infatti lo studio avverte: le popolazioni non devono esser tagliate fuori dalle decisioni, devono essere coinvolte negli accordi. FAO, IFAD e IIED lanciano inoltre un appello agli investitori locali, che devono essere più presenti in queste operazioni. Il fenomeno è massiccio, non riguarda solo l’Africa, e non si può fermare, anche perché rientra nella logica globale di prevenzione delle crisi alimentari con l’aumento della produzione. Ma va controllato, e regolato, soprattutto per tutelare le comunità locali e l’ambiente.

Di sicuro non tutti sono disposti a vedersi rubare la terra da sotto i piedi: in Madagascar il contratto stipulato tra la sudcoreana Daewoo e il governo dell’ex presidente Marc Ravalomanana ha subito suscitato enormi polemiche tra i contadini, tanto da diventare la miccia di una crisi istituzionale. La Daewoo aveva ottenuto la concessione di 1,3 milione di ettari per 99 anni; prevedeva la coltivazione intensiva di palme da olio e di mais. Il malcontento popolare è stato sapientemente cavalcato dall’opposizione, che è riuscita a costringere Ravalomanana alle dimissioni, e ha imposto il leader del fronte opposto, Andry Rajoelina, alla guida del paese. La situazione è ancora instabile e una soluzione sembra lontana, ma almeno per ora la Daewoo ha sospeso i suoi progetti. In attesa probabilmente di tempi migliori.