Strage di madri in Perù

di Stella Spinelli
da www.peacereporter.net

“Arrivare nel Ventunesimo secolo come il secondo paese latinoamericano con le più alte cifre di mortalità materna ci fa vergognare e anche addolorare dato che si tratta di morti di donne per cause associate alla gravidanza e al parto e post partum tutto o quasi prevenibili. La cosa più terribile è che la maggioranza dei casi si registra nelle zone rurale e povere del paese. Dolore e vergogna che lo Stato non investa nemmeno tre dollari per abitante per contribuire a eliminare il fenomeno”. Questa denuncia-sfogo è di Maria Esther Mogollon, una giornalista peruviana da tempo attivista del Movimento amplio de mujeres latinoamericanes y del Caribe, che ha tutte le ragioni dalla sua: in Perù ogni giorno quattro donne muoiono per cause legate alla maternità e otto su dieci considerano un problema accedere ai servizi materno infantili.

Questo nonostante il governo già ai tempi di Toledo abbia lanciato il Sis, Seguro integral de salud, una copertura sanitaria per chi non può permettersi di pagare le cure di istituti privati. Una misura buona sulla carta, ma nella pratica limitata dalla carenza di centri medici in zone contadine e indigene, dalla mancanza di medicine anche le più generiche, dalla corruzione e dal razzismo del personale medico, dalle poche informazioni date a donne analfabete o semi analfabete che spesso si ritrovano a dover combattere con una burocrazia incomprensibile. Una situazione che ha spinto il ministero della salute a lanciare in questi giorni una novità che, se applicata, porterà importanti cambiamenti: il Sis dovrà rintracciare e inserire tutte le donne incinte o le neo mamme nel programma di prevenzione, accompagnandole in tutto l’iter, senza aspettare che la paziente si presenti agli sportelli.

Un progresso certo, ma lento, dato che non va a toccare tutte quelle cause sociali che compongono il dramma: la povertà, l’analfabetismo, la violenza domestica, l’indifferenza verso la cultura contadina e indigena, la discriminazione economica e razziale. Per non parlare del machismo. La società peruviana, come quella latinoamericana in genere, è molto maschilista, e questo porta a un’indifferenza strutturale verso i malesseri delle donne incinte, verso le complicazioni post-partum, verso sintomi che se trascurati portano a complicazioni gravi e spesso mortali. E le corse agli ospedali pubblici, molte volte, è inutile. La maggioranza di queste madri vive in zone marginali della selva o della sierra. Per raggiungere il primo pronto soccorso sono obbligate a lunghi ed estenuanti viaggi e una volta a destinazione non è detto che la paziente venga accolta con la dovuta prontezza.

“Mi è capitato molto spesso che mi abbiano messa da parte ad aspettare solo perché ero mal vestita, e che abbiano fatto passare avanti donne ben vestite, senza minimamente considerare l’urgenza medica”, racconta una trentenne al Mam fundacional. Se infatti le varie organizzazioni in difesa della donna hanno cercato di organizzare nelle aree più disastrate come Piura, Cusco, Pasco, Arequipa, servizi di trasporto negli ospedali più vicini, è capitato spesso che alle donne non venga prestata la dovuta attenzione. E inoltre si paga tutto “persino i guanti che usano i medici”, denuncia un’altra donna. E per quanto riguardano i sanitari spediti in visite periodiche nelle zone marginali, viene denunciato che questi si trattengono poco, tornano sporadicamente e informano male. “C’è un’etica professionale alquanto scarsa”, precisa Mogollon. Tanto che nell’80 percento dei casi, nelle zone contadine e indigene, il parto avviene in casa, senza assistenza qualificata. C’è, infatti, una totale sfiducia verso medici e ostetriche che viene da lontano.

Tra il 1996 e il 2000, trecentomila donne sono state sterilizzate con la forza e con l’inganno, nel quadro della brutale politica di controllo delle nascite imposta dal dittatore Alberto Fujimori. Madri di famiglie numerose venivano circuite e portate in sale operatorie arrangiate, quindi operate, rese sterili, e rispedite a casa senza la minima assistenza e nella totale disperazione. Tante, troppe hanno subito conseguenze fisiche e psichiche irreversibili. Con loro anche 16mila uomini. Le parole delle donne di Anta non necessitano commenti.

“Mi hanno cercata molte volte per convincermi a operarmi – racconta Dolores Quispe Vasquez, 32 anni, della provincia di Cusa, madre di sei figli – A mio marito fecero firmare una carta e gli dissero mi avrebbero fatto curare, ma dato che era analfabeta, non sapeva cosa dicesse quel documento. Ma lo minacciarono che se non mi fossi presentata al posto medico, la polizia lo avrebbe arrestato. Così mi obbligò ad andare. Quando arrivammo erano le otto del mattino, mi chiusero in una stanza. Eravamo in dodici e ci chiamarono una a una. Toccò a me, mi portarono in un’altra stanza, mi fecero un’iniezione e mi addormentai. Quando mi svegliai non riconoscevo nessuno e la testa mi girava. Non camminavo. Restammo, le altre donne e io, lì per un giorno.

Poi ci misero in ambulanza e ci portarono fino a metà strada. Ma io non riuscivo a camminare e mi faceva male la pancia. Ognuna di noi aveva lasciato del denaro all’infermiera affinché venisse a visitarci e a curarci direttamente a casa. Passò una settimana e nulla. Quindi decisi di andare io fino al posto dove mi avevano operata. Elvira, l’infermiera, mi fece una puntura anti-infiammatoria. Era molto infastidita, ero zoppa, avevo mal di testa, di ovaie, fitte, dopo tornai al posto medico e mi disse che mi avrebbe curato se non lo avessi detto a nessuno. Ma continuavo a stare molto male, quindi i miei parenti mi portarono a Cusco per essere visitata da una medico specialista. Continuo a sentire molto dolore e non ho la stessa energia di prima per lavorare. Non posso nemmeno camminare molto perché sono tutta indolenzita”.

Questa la storia di Dolores, ma anche di Paula, Sabina, Felipa, Carmen, Aurelia, Mery, Demetria, Vicentina, Venancia, Florencia, Hilaria, e di altre 289mila giovani sterilizzate con la forza, intimamente violentate con l’inganno e private per sempre della dignità di essere donna e madre.