ITALIA, CRONACA DI UN PAESE SENZA

di Stefano Rodotà
da www.repubblica.it

Ricordate il titolo di un libro bello e premonitore di Alberto Arbasino, Un Paese senza? “Senza memoria, senza storia, senza passato, senza esperienza, senza grandezza, senza dignità”, e via continuando. In questi anni il catalogo si è allungato in maniera inquietante, persino drammatica, e il Presidente del Consiglio, con una accelerazione impressionante negli ultimi mesi, ce la mette tutta nel dire quel che dobbiamo aspettarci.

Ecco, allora, un Paese senza Parlamento e senza magistratura (perché queste istituzioni saranno gusci vuoti se si realizzeranno i progetti tante volte annunciati). Un Paese senza eguaglianza e senza diritti fondamentali (perché questa è la deriva indicata dagli ultimi provvedimenti in materia di sicurezza). Un Paese senza rispetto per se stesso (perché è sbalorditivo che tutti i giornalisti rimangano disciplinatamente seduti quando, in una conferenza stampa, il Presidente del Consiglio intima a una loro collega “o via lei o via io”). Un Paese senza opinione pubblica, senza lavoro…

Ma vi è un “senza” che campeggia su tutti gli altri. Nell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, uno dei testi fondativi della moderna democrazia, si legge: “Una società, nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti e non è determinata la separazione dei poteri, non ha Costituzione”. Quando il Presidente del Consiglio attacca frontalmente Parlamento e magistratura, quando cancella o rende labili i confini tra i diversi poteri dello Stato, quando pone la fiducia su provvedimenti lesivi di diritti fondamentali delle persone, il risultato è proprio quello deprecato dalla Dichiarazione del 1789. Un Paese senza Costituzione.

Con una mossa per lui abituale, Berlusconi ha accusato opposizione e stampa di aver falsificato le sue opinioni sulla riforma delle Camere. Ma quelle tre definizioni del Parlamento – pletorico, inutile, controproducente – gli sono sfuggite, vanno lette insieme e sono rivelatrici. Pletoriche le Camere lo sono certamente, ed è colpa non piccola della sinistra l’aver trascurato in passato i suggerimenti provenienti dal suo interno sulla riduzione del numero dei parlamentari, lasciando così incancrenirsi un problema che sarebbe poi finito nelle polemiche sulla “casta” e avrebbe alimentato l’antipolitica. Ma vi sono due modi per pensare e attuare questa riduzione. Avere meno parlamentari può rispondere all’obiettivo di avere un lavoro più serrato, di poter rendere più incisivi i controlli, attribuendo ai parlamentari poteri e risorse adeguati. Un Parlamento non indebolito dalla diminuzione dei suoi componenti, ma sostanzialmente rafforzato nelle sue prerogative.

Quando, però, la riduzione è invocata da chi ha detto di volere in Parlamento una pattuglia di competenti e una folla di docili gregari, che ha proposto di far votare solo i capigruppo, che pretende di avere le mani libere nella decretazione d’urgenza, emerge clamorosamente proprio l’immagine di una istituzione ritenuta inutile, che intralcia e ritarda, dunque controproducente. Quando Berlusconi richiama il numero di 100 parlamentari, riferendosi al Senato degli Stati Uniti (dimenticando, però, i 432 membri della Camera dei rappresentanti), parla di un modello dove il potere di quei cento è grandissimo, può bloccare anche iniziative essenziali del Presidente, si concreta in fortissime possibilità di controllo, è basato su risorse umane e finanziarie cospicue. Questo modello fa a pugni con la richiesta berlusconiana di maggiori poteri al Presidente del Consiglio, che eccede le esigenze di un’azione di governo più spedita, si concreta in una espropriazione di competenze del Parlamento e dello stesso Presidente della Repubblica, alterando così la forma di governo repubblicana.

Non a caso la riforma invocata da Berlusconi dovrebbe passare attraverso una ulteriore e radicale mortificazione del Parlamento. Non disegni di legge del governo, non iniziative di senatori e deputati dovrebbero contenere le ipotesi di riforma. Queste sarebbero affidate ad una proposta di legge di iniziativa popolare sulla quale raccogliere milioni di firme. Come sarebbe condotta la campagna per la raccolta delle firme? Dicendo che un Parlamento inetto e recalcitrante, incapace di riformarsi, deve essere obbligato a farlo dalla forza del popolo. Quali sarebbero gli effetti di questa scelta? La definitiva legittimazione del rapporto esclusivo tra Capo e Popolo. Berlusconi lo aveva già annunciato qualche tempo fa. Di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di firmare il decreto riguardante Eluana Englaro, aveva reagito dicendo di avere il diritto di seguire la via della decretazione d’urgenza senza alcun controllo, aggiungendo proprio che avrebbe fatto modificare la Costituzione da parte dei cittadini. Un Paese senza democrazia, allora, perché questa assumerebbe le forme della democrazia plebiscitaria.

Proprio questa linea è stata ribadita dal Presidente del Consiglio quando, rivolgendosi non a caso al’assemblea degli industriali, ha detto che il suo governo funziona come un consiglio d’amministrazione. In questa affermazione, peraltro non nuova, non si manifesta soltanto una idea autocratica e aziendalistica della politica. Si ritrova una visione della società che si esprimeva senza mezzi termini nella vecchia formula “la democrazia si arresta alle porte dell’impresa”. Considerato appunto come un´impresa con il suo consiglio d´amministrazione, il governo vede come inammissibile intralcio ogni forma di controllo. Da questa visione generale, e non da singoli episodi, nasce l’assalto al Parlamento, alla magistratura, al sistema dell’informazione, sul quale si esercita un potere di normalizzazione (vedi le nomine Rai) e al quale si rifiuta ogni risposta.

Che cosa dire di questa continua pulsione verso un Paese senza democrazia, alla quale il Capo sostituisce i suoi riti, i suoi fedelissimi, i suoi bagni di folla? Non credo che gli anticorpi democratici siano del tutto scomparsi, e per ciò ritengo indispensabile che i politici d’opposizione guardino con rispetto e attenzione non strumentale a tutti quei cittadini che non si rassegnano a esser parte di un Paese senza. Questo, nell’immediato, significa che si possono certo presentare proposte di riforma istituzionale, ma essendo ben consapevoli del quadro politico del quale fanno parte. La riduzione del numero dei parlamentari, ha senso se non si presenta come una imbarazzata risposta all’appello berlusconiano, ma come l’occasione per ridare al Parlamento il ruolo che ha perduto, senza cadere in trappole come la concessione di ingannevoli statuti dell’opposizione. Altrimenti, il cerchio si chiuderebbe davvero, con una opposizione destituita della sua permanente funzione democratica, legittimata solo a pensare a una possibile rivincita alle prossime elezioni, alla quale viene elargita solo qualche minima possibilità di emendamento.