Gerusalemme, il gay kasher

di Elena Loewenthal
in “La Stampa” del 1 giugno 2009

«Il maschio, non ti ci giacerai con lui nel modo in cui si giace con una donna: è abominio»: così è
detto nel libro biblico del Levitico (18,22). Poco oltre, di fronte a questa colpa che per l’ebraismo
ortodosso definisce l’omosessualità, è sancita la pena capitale. Le unioni fra persone dello stesso
sesso sono bandite anche per una ragione di ordine «sociale»: non rispondono a uno dei primi
imperativi della Torah, quello di crescere e moltiplicarsi. Secondo questa visione, inoltre, il rapporto
omosessuale viene meno al principio della famiglia come nucleo fondamentale dell’identità e del
tessuto storico.

Così, in un modo peraltro non dissimile dalle posizioni ufficiali di altre fedi, si pronuncia
l’ebraismo tradizionale di fronte alla questione omosessuale. Senza esitazioni, con inequivocabile
fermezza. Ma ormai da qualche tempo, in alcune sinagoghe liberali e conservative (due fra i rami
dell’ebraismo riformato, non ortodosso) di New York e d’Israele si celebrano unioni fra persone
dello stesso sesso: in nome di quel principio dell’amore che è nella Torah non meno primario della
legge («Ama il tuo prossimo come te stesso», dice ancora il Levitico). Senza contare che per la
tradizione ebraica è essenziale contestualizzare la Torah al mutare dei tempi: oggi come oggi nessun
rabbino sarebbe disposto a celebrare un matrimonio in regime di poligamia, che tuttavia la Bibbia
ammette, dà anzi quasi per scontata.

Al di là delle questioni legali, l’omosessualità costituisce un tabù scabroso come pochi, entro
l’ebraismo tradizionale. Che difetta persino di un lessico adeguato, delle parole per dirlo. È questa
la prima sensazione che emerge leggendo il romanzo di Yehoshua Bar Yosef, Il mio amato (in uscita
per i tipi della Giuntina, nella traduzione di Antonio Di Gesù, pp. 105, e12): nel lungo monologo
attraverso il quale la storia si costruisce, il protagonista deve anzitutto superare un’afasia
insopportabilmente dolorosa.

Asherke è marito, padre, nonno. Fa lo scriba di professione, il che gli
consente un tenore di vita più che decente. Il suo mondo sta racchiuso nel quartiere di Meah
Shearim a Gerusalemme: l’ortodossia dell’ortodossia. Qui si parla ancora lo yiddish, per non
sporcare l’ebraico, la lingua santa, con la quotidianità. Asherke non fugge solo perché non sa dove
andare. È un uomo colto, introverso, dedito ad attività in odore di eresia, come il gioco degli
scacchi. Scopre molto tardi dove sta annidata la sua inquietudine, la ragione profonda di una oscura
infelicità: tutto gli si svela quando l’attrazione per il proprio sesso prende corpo nella figura di un
ragazzo.

Bar Yosef, scrittore israeliano scomparso nel 1992, apparteneva al mondo che descrive qui con
dolorosa efficacia (anche se la traduzione ogni tanto s’inceppa). E questa storia è terribilmente
scabrosa proprio perché non si consuma, ma consuma. Ben diverso è il registro di Naomi Alderman,
nata nel 1974 in una comunità ortodossa inglese, il cui romanzo, Disobbedienza (tradotto tempo fa
da Nottetempo) racconta con affannosa bulimia il rapporto fra identità lesbica e rigorismo ebraico,
impulsi e convenzioni consolidate.

Ma in entrambi i casi letterari il dramma sta nel groviglio di appartenenza e diversità. L’attempato
scriba che dichiara il suo amore – ma solo alla pagina bianca, certo non all’oggetto del sentimento –
per una persona dello stesso sesso, conosce bene il senso di quell’«abominio» declinato nella Torah.
Fa sua questa parola così drastica. Eppure sa anche che è la cosa più bella mai successa alla sua vita.

L’unica via di scampo, o meglio di sopravvivenza, è la sublimazione. Ed è ciò che rende
osceno (nel senso originario del termine: «fuori della scena», inenarrabile) questo racconto: Asherke
si appaga guardando, pensando, sognando. Non concepisce altro sfogo, per l’istinto che lo spinge a
seguire anonimi volti per strada, fuggire un giorno verso la spiaggia di Tel Aviv, e poco dopo
tornare a casa.

Yehoshua Bar Yosef, fedele cantore di quell’impenetrabile universo umano, racconta attraverso la
voce del protagonista un’elegia malata, fatta di solitudine e grande lucidità. Il male sta per Asherke
non certo nella sua «diversità» omosessuale, quanto nell’impossibile soluzione al dilemma fra il
dentro e fuori il proprio mondo, l’unico che il protagonista conosca e nel quale sia capace di vivere.
Ma la diversità si fa quasi un privilegio, seppure pagato a caro prezzo: quello di riuscire a guardare
oltre le barriere, i divieti e gli obblighi sui quali quel mondo è costruito. E l’attrazione proibita
diventa così uno strumento di consapevolezza, per quanto sofferta.