Princìpi da osservare e (poi) da predicare

di Dacia Maraini
in “Corriere della Sera” del 2 giugno 2009

In un bellissimo racconto di Cechov si narra di un giudice, un uomo severo e intransigente che è intento a educare un figlio bambino dopo che la moglie è morta prematuramente. Non devi dire bugie, ripete al piccolo, non devi comportarti con slealtà, non devi fare il prepotente, non devi parlare a vanvera, non devi nascondere nulla, tutto nella tua vita deve essere trasparente, perché così si comporta una persona civile. Il figlio bambino china la testa e annuisce. Sa che il padre parla per il suo bene.

Un giorno il giudice torna dal lavoro con un’ora di anticipo e sorprende il figlio a fumare una sigaretta. Apriti cielo! L’uomo si dichiara deluso, strepita per l’inganno ordito dal ragazzino. Gli fa una grande paternale ricordando la madre morta, l’enorme responsabilità che si è preso nell’educarlo. E tu, appena volto le spalle, trasgredisci ai patti con tanta spudoratezza! gli grida. Lo sai che il fumo fa male, intorpidisce la mente, ostruisce le arterie, ingiallisce le dita e i denti, fa puzzare l’alito e fa anche venire il cancro! Non ti vergogni?

Il bambino solleva gli occhi innocenti sul padre che non ha mai osato contraddire e dice con voce timida: «Ma anche tu fumi papà!». L’uomo si guarda le dita ingiallite ed è lui questa volta a chinare la testa. Per la prima volta si chiede se non abbia sbagliato qualcosa nell’educazione del figlio. Lì per lì ribatte che lui è adulto e ha delle libertà che il bambino non ha. Ma dallo sguardo del piccolo capisce che non risulta credibile. Come persuadere un bambino a comportarsi bene?

Una voce interiore gli dice che non c’è alternativa all’esempio. Se sarà un buon giudice saprà indirizzare il figlio verso un mestiere portato avanti con generosità e rigore, ma anche nella vita di tutti i giorni, se saprà mostrarsi operoso, sincero, onesto e savio potrà pretendere che il figlio diventi una persona operosa, onesta, sincera e savia. Il giudice riflette sulla credibilità di chi comanda. E deve constatare una cosa che ha già notato sul lavoro: se chi si trova in stato di autorità non dimostra di aderire profondamente alle regole che pretende di fare valere ai suoi sottoposti, quello che può ottenere è solo una meccanica obbedienza. Ma l’obbedienza è una virtù insincera e per tanto soggetta alla finzione.

Chi si sottomette a delle regole perché è costretto a farlo, appena può trasgredisce. È solo la convinzione a rendere sicura l’educazione. I precetti, le interdizioni, i divieti non funzionano se non si propone una buona ragione per tenerne conto. E le buone ragioni debbono essere spontanee, mai imposte. Quando infatti chi comanda insiste nel pretendere obbedienza verso regole che per primo non rispetta, spinge gli altri alla clandestinità e alla doppiezza. È quello che accade nelle famiglie in cui i genitori pretendono dai figli l’adesione a principi astratti che loro sono i primi a non tenere in considerazione.