Libano, insieme per forza

di Enrico Campofreda
da www.aprileonline.info

Dopo il voto che ha visto la vittoria delle forze filo-occidentali, il Paese dei Cedri è atteso a svolte socio-culturali oltre che politiche, salvaguardando l’unità interna da chi come il governo di Gerusalemme già semina zizzania

Vincono Hariri e la sua coalizione filoccidentale mentre Hezbollah per bocca del deputato Fadlallh ammette la sconfitta con l’eco dell’alleato cristiano Aoun che sostiene di accettare la volontà del popolo libanese. Settantuno deputati alla coalizione “14 marzo” cinquantasette all’opposizione (anche se i dati verranno ufficializzati in serata o domattina) ma soprattutto l’indiscutibile necessità di formare un nuovo governo di unità nazionale e dunque ogni parte politica non potrà ignorare l’altra. Le elezioni hanno visto un alto afflusso alle urne con oltre il 52% dei votanti, percentuale aumentata di 7 punti rispetto a quelle del 2005 e rispetto ai più duri momenti della guerra civile. I duecento osservatori internazionali hanno comunque potuto constatare la correttezza delle operazioni. I punti di forza del voto per Hariri e Geagea sono stati: Tripoli e Chouf otto seggi, Akkar sette, la Bekka ovest sei, Aley quattro e poi la terza circoscrizione di Beirut dieci seggi e la prima cinque mentre per la seconda gli accordi di Doha prevedevano la spartizione a metà – due e due con l’opposizione – dei seggi previsti.

Quest’ultima ha ottenuto gran seguito nell’entroterra settentrionale di Baalbek-Hermel con dieci seggi, a Kessrouan con cinque (regione che ha registrato il più alto tasso di partecipazione: 70%), quindi Tiro con quattro. Devono ricevere conferma i sei seggi di Baabda, a ridosso della capitale, e i cinque di Marjeyoun-Hasbaya nella fascia meridionale. Sempre Hasan Fadlallah, che per il Partito di Dio ha commentato a caldo i risultati, i dieci seggi nel Baalbek e i ventuno con gli alleati nel Sud del Libano confermano il radicamento dell’organizzazione sciita nel territorio anche in funzione nazionale come difesa dalle sempre possibili invasioni israeliane. I prossimi passi certi perché programmati porteranno alla nomina d’un presidente cristiano-maronita, un primo ministro musulmano sunnita e un portavoce del Parlamento sciita. Poi resteranno aperte molte questioni di politica interna ed estera. Il sunnita premier potrebbe essere proprio Hariri junior, che dal padre Rafiq eliminato da un’auto bomba nel 2005 di cui è accusata ma senza prove l’Intelligence siriana mentre Der Spiegel ha recentemente puntato il dito su Hezbollah, ha ereditato un impero finanziario e l’hobby della politica.

Dedizione affaristica più che servizio per la comunità, un po’ alla maniera dei tycoon dell’Europa orientata a destra di cui Berlusconi è capofila. E col capitale multinazionale d’ogni provenienza, dai sultanati arabi per i quali iniziò a lavorare come imprenditore edile alle lobby occidentali, Rafiq puntava a ricostruire il Libano già dai primi anni Novanta quando salì al governo. Famosa l’emissione degli eurobond che la Banca mondiale gli concesse, seppure come personaggio rientrava più sulle pagine dei rotocalchi che in quelle di commento politico, grazie a ricchezze personali che lo collocavano al quarto posto nel mondo fra gli uomini di governo con oltre quattro miliardi di dollari. Di questa vita da nababbo la componente più povera dei quattro milioni di libanesi, i contadini del sud, i montanari delle valli interne – che sono poi lo zoccolo duro del voto a Hezbollah – hanno vissuto solo aspetti contraddittori poiché non sono stati neppure sfiorati dagli arricchimenti del Paese. Gli unici sostegni per loro venivano dai servizi sociali creati dal movimento sciita.

Comunque Hariri riconobbe agli avversari del Partito di Dio un ruolo quando si rifiutò di concedere alla multiforza militare diretta dagli Stati Uniti di consegnare i capi della milizia sciita, sostenendo come quest’ultima fosse l’unico baluardo alle ingerenze coloniali d’Israele. Probabilmente il futuro del ‘Movimento per il Futuro’ che il figlio Saar ha ereditato dovrà partire da qui. Dialogando coi capi di Hezbollah prima di temerne colpi di mano. Dalla crisi interna dell’anno scorso alle attuali elezioni forse un elemento risulta chiaro a tutti: nessuno riesce a governare da solo né sunniti, né maroniti, né sciiti, né drusi e gli stessi due blocchi di alleanze possono vincere di poco ma necessitano di collaborazione. Fra i ceti meno abbienti uno dei leit motiv della campagna elettorale è stato il desiderio di superare quella corruzione che affligge la politica e con essa il modello unico di società schiacciato sul mercato che indica la modernità solo col consumismo. I due volti del Libano, quello ammiccante della Beirut stile coloniale tecnologica e ricca (ma solo in certi quartieri) e della costa contrapposto all’interno arretrato e abbandonato a sé, hanno bisogno di nuovi sbocchi rispettosi delle differenze e delle tradizioni. Certo bisognerà mediare fra i beirutini nostalgici d’un passato difficilmente riproponibile perché ad esempio una delle risorse del Paese, quella turistica, può portare capitali più gestibili e distribuibili nell’indotto rispetto ai denari in cerca di paradisi fiscali degli anni Cinquanta e Sessanta.

Le comunità sunnite urbane dovranno rivedere taluni preconcetti verso gli sciiti del sud e della Bekka visti come retrogradi, ignoranti, volgari. Insomma il Libano è atteso a svolte socio-culturali oltre che politiche, salvaguardando l’unità interna da chi come il governo di Gerusalemme già semina zizzania. Il suo primo commento sulle elezioni si conclude con le consuete minacce “Israele considera il governo libanese responsabile di qualsiasi azione militare o di altro genere proveniente dal suo territorio