L’immigrazione e le altre “ombre” dell’amministrazione Obama

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

Obama è un grand’uomo, un ottimo comunicatore, un accorto statista. Non c’è nessuna ragione di ritenere che non sia anche un uomo onesto e che non intenda dare seguito alle sue promesse elettorali. Ma tra il promettere e il realizzare ci passa il mare, o meglio il mare della politica, o meglio ancora del Congresso.

Contrariamente a quello che si pensa solitamente, il presidente degli Stati Uniti non è onnipotente. Controlla sicuramente la macchina del governo, ma non ha alcun potere coercitivo sulla sua maggioranza nel Congresso: non può presentare decreti, non può chiedere un voto di fiducia, non può neppure intervenire sull’ordine del giorno. Per fare approvare un provvedimento deve ricorrere a continui negoziati con i diversi leader parlamentari, della maggioranza, ma anche dell’opposizione, dal momento che al senato l’opposizione ha un diritto totale di ostruzionismo e niente può passare senza il suo permesso.

Sulla carta Obama ha una solida maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ma solo sulla carta, perché ogni deputato e senatore fa testo a sé, nel senso che venendo eletto singolarmente in un collegio uninominale deve — prima ancora che al presidente o al capo della maggioranza — rendere conto ai propri elettori.

E, come è noto, il partito democratico, ancor più di quello repubblicano, è un grande contenitore, dentro al quale c’è un po’ di tutto: avversari e sostenitori del diritto di aborto, avversari e sostenitori della pena di morte, avversari e sostenitori dell’equilibrio fiscale, avversari e sostenitori della libertà di portare armi dappertutto e di tutti i tipi, e via discorrendo.

Il risultato è che, nonostante le indubbie capacità manovriere di Obama e del suo abilissimo staff, il “programma” di governo non ha fatto in questi primi cinque mesi di presidenza molti passi avanti. Ci sono stati importanti gesti simbolici – la promessa di chiudere Guantanamo (per il momento solo una promessa), il divieto di tortura, l’annuncio del ritiro dall’Iraq, la liberalizzazione della ricerca sulle cellule staminali.

Molta carne è stata messa al fuoco (provvedimenti sull’energia e sull’ambiente, riforma sanitaria), ma quanto alle cose concretamente fatte, bisogna riconoscere che Obama si è fin qui mosso con grande cautela, per lo più sulle orme del suo predecessore.

Questo vale sicuramente per la politica estera e di difesa, anche se all’apparenza sembrerebbe il contrario. Di fatto, a parte le aperture – essenzialmente simboliche — verso il mondo islamico (e certo anche queste hanno la loro importanza), si è mosso su una linea di continuità: in Iraq, in Afghanistan, nei confronti dell’Iran e della Corea del Nord.

Il ritiro dall’Iraq ci sarà solo a fine 2011, a meno che l’Iraq, come sembra, non lo imponga attraverso un referendum molto prima. In Afghanistan Obama ha promesso di continuare la guerra che dura da otto anni, senza una chiara strategia, ma intanto ha mandato altre 20.000 truppe fresche. In Pakistan continuano i bombardamenti dall’alto che mietono vittime civili. Verso l’Iran (a parte i segnali di buona volontà) siamo esattamente a dove stavamo sei mesi, due anni e sei anni fa.

Anche la politica economica non è gran che cambiata. Certo, significativi investimenti sono stati stanziati nei settori strategici dell’energia e dell’innovazione tecnologica, ma il grosso del piano per la ripresa economica è quello che era stato impostato dalla precedente amministrazione: soldi alle banche e sostegno alle imprese.

Il debito pubblico, già elevatissimo sotto Bush, sta raggiungendo sotto Obama livelli stratosferici, con tutte le conseguenze a medio termine sui tassi di interesse e sul bilancio dello stato. Essenzialmente Obama sta facendo, con molta migliore capacità comunicativa, quello che faceva il suo predecessore (e molti leader politici europei): sperare che la crisi passi presto, che le aziende riprendano a produrre e che il tesoro abbia più soldi per ripianare i debiti.

Tra tutti i settori nei quali era attesa una svolta netta e rapida, che invece ancora non si è vista, ce n’è uno che costituisce una criticità particolare su molti piani – sociale, economico, politico e anche elettorale: è la questione dell’immigrazione, di come contenerla e di cosa fare dei 12 e passa milioni di clandestini presenti sul suolo americano.

Bush aveva inizialmente provato a fare approvare dal Congresso una riforma che rafforzasse i confini e che prevedesse anche un percorso verso la legalizzazione delle masse di lavoratori clandestini che svolgono i lavori più ingrati nei servizi, nell’edilizia e nell’agricoltura; ma, di fronte all’opposizione della sua stessa maggioranza, ci aveva rinunciato.

Negli ultimi due anni del mandato di Bush, nonostante il Congresso fosse ora a maggioranza democratica, non se ne era fatto nulla. Cioè, nulla in termini di una legge di riforma, ma moltissimo in termini di repressione: la costruzione del famoso “muro” tra Messico e Stati Uniti, le retate nottetempo di clandestini nelle fabbriche, gli arresti indiscriminati per le strade sulla base dell’appartenenza etnica. Lo sceriffo più famoso dell’Arizona, Joe Arpayo, ha costruito le sue fortune organizzando squadre di vigilantes per dare la caccia agli immigrati sbattendoli in campi di concentramento a cielo aperto.

Questo è avvenuto un po’ dappertutto negli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush, e in particolar modo nello stato dell’Arizona, lo stato di Arpayo, da cui proviene anche John McCain, e dove fino a pochi mesi fa il governatore si chiamava Janet Napolitano, che è stata nominata da Obama a capo del dipartimento per la sicurezza interna.

Ora, nel mentre che la riforma dell’immigrazione non è neppure stata inserita all’ordine del giorno del Congresso, Janet Napolitano ha continuato la politica repressiva del suo predecessore, che in questi ultimi mesi ha suscitato proteste anche dalle organizzazioni umanitarie perché le deportazioni vengono eseguite senza tenere conto della famiglia del “reo”, separando mariti illegali da mogli legali e soprattutto dai figli che, se sono nati negli Stati Uniti, sono cittadini americani; dopo di che, essendo i bambini senza genitori, vengono dati in adozione.

Si diceva anche di un rischio politico e elettorale. Politico perché se Obama spingerà per una riforma onnicomprensiva su linee di civiltà e di tolleranza (come ha promesso) si troverà sicuramente contro, almeno una parte della sua stessa maggioranza. Elettorale, perché i latinos – che costituiscono oggi il blocco elettorale più numeroso (oltre 40 milioni) — non ne possono più e chiedono che le promesse siano mantenute.

A novembre avevano abbandonato i repubblicani e votato massicciamente per Obama proprio per avere una riforma dell’immigrazione e un percorso di legalizzazione. Se questo non avverrà entro l’anno, toglieranno il sostegno ai democratici mettendo a rischio la loro maggioranza nelle elezioni di mid-term del 2010.