IRAN/1 – LE URNE E LE PIAZZE

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org – Lunedì, 15 Giugno 2009

Dopo molte settimane durante le quali sui media occidentali si sono sprecate le testimonianze di un impetuoso movimento di protesta, composto da giovani, intellettuali e dalla classe media iraniana in appoggio al riformista moderato Mir-Hossein Mousavi, sono bastate solo un paio d’ore dopo la chiusura dei seggi all’agenzia di stampa governativa IRNA per proclamare la vittoria a valanga del candidato uscente Mahmoud Ahmadinejad. Se anche i timori suscitati dalle richieste di riforma della rivoluzione verde – il colore adottato dai sostenitori di Mousavi nel corso della campagna elettorale – hanno verosimilmente spinto ad un compattamento del fronte conservatore nel paese, forti dubbi persistono sulla legittimità di un voto che, in ogni caso, è stato accolto con un certo sollievo anche in qualche capitale mediorientale ed occidentale.

L’assenza di rilevazioni statistiche indipendenti alla vigilia della decima elezione presidenziale della Repubblica Islamica iraniana, aveva reso oggettivamente complicata una stima delle forze in campo. L’entusiasmo crescente che si era diffuso nel paese per Mousavi – primo ministro dal 1981 al 1989 – sembrava tuttavia aver risvegliato la passione politica di un elettorato riformista deluso dal fallimento della presidenza di Mohammad Khatami e dai presunti brogli che già avevano portato Ahmadinejad al potere quattro anni fa. Non solo la classe media urbana e gli abitanti delle regioni nord-occidentali al confine con l’Azerbaijan (da cui Mousavi proviene) appoggiavano in massa il candidato del cambiamento, ma addirittura molte aree rurali apparivano sull’orlo di un clamoroso voltafaccia nei confronti del presidente.

Sostenuto anche da una popolazione composta per il 70% da giovani al di sotto dei 30 anni, Mousavi sembrava essere riuscito a produrre qualche incrinatura nell’establishment clericale iraniano, dove la posizione di potere più importante rimane quella del Leader Supremo, l’ayatollah Ali Khamenei. Alla coalizione che appoggiava Mousavi aveva d’altro canto lavorato assiduamente l’ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, vera eminenza grigia del regime, il quale si dice avesse stipulato un patto con l’ayatollah affinché quest’ultimo non appoggiasse apertamente Ahmadinejad, in cambio del ritiro dalla competizione del riformista Khatami. La famiglia Rafsanjani, una delle più ricche e potenti dell’Iran, ha così messo in campo tutte le proprie energie a sostegno di un candidato più moderato ed accettabile dalla dirigenza islamica per sconfiggere l’odiato Ahmadinejad, principale ostacolo verso un approccio più pragmatico verso la gestione dell’economia e nelle relazioni internazionali.

Nonostante l’attesa e l’annuncio della vittoria da parte di Mousavi alla chiusura delle urne, la doccia fredda è arrivata puntualmente dai risultati dichiarati come ufficiali dal Ministero dell’Interno. Con un’affluenza record dell’85%, Mahmoud Ahmadinejad ha ottenuto il 62,6% dei voti, evitando un secondo turno che appariva pressoché scontato da tutti gli osservatori. Lo sfidante Mousavi si sarebbe fermato appena sotto il 34%, mentre al limite dell’assurdo sono i risultati accreditati all’altro candidato conservatore Moshen Rezai e al riformista Mehdi Karroubi, rispettivamente all’1,73% e allo 0,85%. Particolarmente inverosimile sarebbe il risultato dell’ex presidente del Parlamento Karroubi, capace di conquistare oltre 5 milioni di preferenze nel primo turno delle presidenziali del 2004 e quest’anno fermatosi a poco più di 300 mila voti, un numero addirittura inferiore alle schede invalidate.

Denunce di irregolarità diffuse hanno iniziato allora a propagarsi per il paese, dove gruppi di giovani sostenitori di un Mousavi deciso a non concedere la vittoria al rivale si sono scontrati violentemente nelle strade delle principali città con pattuglie armate dei Guardiani della Rivoluzone. Ai rappresentanti dei candidati dell’opposizione, ad esempio, non è stato consentito verificare lo spoglio nei seggi, mentre già durante le operazioni di voto era stato bloccato l’invio di SMS per impedire le segnalazioni di anomalie tra gli osservatori. A differenza di quanto era accaduto nelle precedenti elezioni presidenziali inoltre, i risultati di ogni singolo distretto non sono stati comunicati, rendendo più difficile il controllo della correttezza dei numeri ufficiali.

Particolarmente controverso è stato poi l’impiego di circa 14 mila seggi mobili da impiegare per raccogliere il voto di quanti erano impossibilitati a raggiungere i seggi. Mentre negli anni scorsi la loro attività era limitata agli ospedali e a strutture di ricovero, in questa occasione – come ha denunciato l’ex ministro degli Esteri e dissidente Ibrahim Yazdi al settimanale americano The Nation – hanno fatto tappa presso stazioni di polizia e basi militari, dove il numero di voti falsificati avrebbe potuto moltiplicarsi senza difficoltà.

Al di là dell’impatto effettivo di irregolarità che pure sembrano evidenti, il voto in Iran ha finito per premiare l’appello di Ahmadinejad alle forze terrorizzate da un possibile cambiamento negli equilibri del potere al vertice e dai maggiori spazi reclamati dalla società civile, dalle donne in primo luogo. Oltre che su una élite di nuovo compattata attorno ad una figura ancora più forte, dopo un’elezione molto temuta e combattuta con toni spesso molti aspri, il presidente ha potuto contare sull’appoggio incondizionato dei ceti più bassi della scala sociale iraniana. I poveri delle campagne e la classe operaia delle città, i conservatori più irriducibili, gli impiegati pubblici e i pensionati che negli ultimi quattro anni avevano beneficiato, sebbene in maniera relativa, del populismo di Ahmadinejad e si sono riconosciuti nella sua retorica orgogliosamente anti-occidentale, sono una forza tuttora non indifferente in Iran.

A nulla è servito allora l’appello di Mousavi e degli altri candidati dell’opposizione all’ayatollah Khamenei per ristabilire chiarezza e dare una qualche legittimità al voto. Il Leader Supremo, trascinato nella battaglia tra i cosiddetti “internazionalisti” di Rafsanjani e i rivoluzionari contrari ad ogni cambiamento nelle strutture di potere del regime, si è infatti congratulato immediatamente con Ahmadinejad per il chiaro successo elettorale, chiudendo la porta a qualsiasi tentativo di mettere in discussione l’esito delle urne. L’atteggiamento del presidente di fronte alle proteste di piazza e alle critiche della stampa estera riflette d’altra parte la posizione di forza conquistata in seguito al voto, con la marginalizzazione di quanti auspicavano una transizione pacifica verso un Iran post-rivoluzionario.

Con spazi di manovra sempre più ristretti, il fronte riformista pare così destinato ad un nuovo periodo di apatia, come quello seguito alla sconfitta di Rafsanjani nel secondo turno delle presidenziali del 2005. Resta tuttavia da vedere fino a dove si spingerà la protesta dei giovani nelle piazze iraniane e la risposta del regime, nonché soprattutto quali sviluppi comporterà il recentissimo ordine emanato da Khamenei di investigare eventuali brogli dopo un incontro con Mousavi. La riconferma di Ahmadinejad rischia anche di complicare i piani dell’amministrazione americana, al lavoro già da qualche mese per un riavvicinamento con Teheran, sia pure tra molte contraddizioni. Per voce del vice-presidente Joe Biden, la Casa Bianca ha per ora espresso qualche riserva sulla regolarità del voto in Iran, anche se ha confermato di voler instaurare un dialogo con chiunque guiderà la Repubblica Islamica.

Se Obama avrebbe indubbiamente preferito dover trattare con Mousavi, è difficile pensare che l’esito del voto in Iran non abbia incontrato invece il favore della dirigenza israeliana, la quale immediatamente dopo la diramazione dei risultati ufficiali ha ribadito come la politica di disgelo verso Teheran sia destinata a fallire in ogni caso. Nelle trattative sull’annosa questione del
nucleare iraniano, infatti, un presidente relativamente riformista come Mousavi avrebbe reso più difficile la posizione di quanti sostengono la linea dura di Tel Aviv. Mousavi avrebbe rappresentato insomma nient’altro che una maschera gradevole per l’Occidente, permettendo alla guida spirituale del paese di continuare il proprio programma nucleare senza ostacoli veri e propri. La confermata presenza di Ahmadinejad sulla scena rende ancora più delicato il compito di Obama, il quale sarà chiamato ad avviare una trattativa credibile di fronte ad un presidente macchiato da un esito del voto tutt’altro che legittimo agli occhi dell’opinione pubblica occidentale.

Le ripercussioni negli Stati Uniti sono già evidenti. Le elezioni in Iran per il momento hanno dato voce alle critiche verso la gestione della politica estera di Obama da parte dell’opposizione repubblicana, contraria ad ogni gesto di avvicinamento verso Teheran. Ma hanno anche già scavato una profonda divisione nell’amministrazione tra quanti vorrebbero esprimere una più aperta condanna dei risultati ufficiali e della repressione della protesta ed altri, specialmente nella comunità diplomatica, che preferiscono al contrario un atteggiamento di basso profilo per non mettere in pericolo il processo di riconciliazione con la Repubblica Islamica, che rimane tuttora uno degli obiettivi principali della politica estera di Obama.