IL GOVERNO E IL COLORE DEL RAZZISMO

di Rosa Ana De Santis
da www.megachip.info

Le famose ronde, quelle di ex-poliziotti, ex-carabinieri, comuni cittadini, donne e giovanotti pieni di veleno eccole qui. Cappello beige e aquile imperiali, fasce nere sul braccio: fascino di un fenomeno sociale che nel ventennio seminava terrore nelle strade, tra i dissidenti e le persone comuni. Si chiamano ronde nere e in poche foto e qualche commento hanno spazzato via i maldestri tentativi con i quali il governo in questi ultimi mesi ha infiocchettato il pacchetto sicurezza di edulcorate quanto fragili rassicurazioni. Decisioni e provvedimenti semplicemente indecenti camuffati dalla retorica di chi s’indignava ad essere accusato di fascismo o razzismo. Deve essere per questo che la destra ha affisso la vergogna dei suoi manifesti xenofobi e che oggi partono accertamenti da parte di Armando Spataro, capo del pool antiterrorismo e del procuratore Manlio Minale, su questa riesumazione di regime. La violazione della legge Scelba non deve essere proprio un trascurabile elemento per un paese il cui secondo risorgimento è passato sulla morte in piazza del duce e dei suoi. Sembra solo storia e invece eccoli spuntare, come lumache dopo la pioggia, i soliti pericolosi attentatori di democrazia e civiltà appena l’aria di governo si tinge di nero.

Nera è la cronaca che ci riguarda e neri sono i dati ufficiali sulla discriminazione razziale. Qui ed ora. In questo paese e in questo momento. Gli oratori contemporanei si affannano a dire che di razzismo non si muore più. Non esiste, è svanito come vapore, sta chiuso nella muffa delle pagine di storia. Basta invece scorrere la lista delle molte denunce che arrivano all’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri) per smentire a distanza di pochi chilometri e due Palazzi del governo il peso delle menzogne di chi decide della nostra sicurezza e per scoprire la carta d’identità del razzista e delle sue vittime. Il razzismo è nero come l’ebano. Nero nelle divise dei riciclati nostalgici, arruolati nelle pericolose ronde urbane. Nero per la pelle delle vittime. Stranieri e migranti, soprattutto africani.

Ci sono 2454 chiamate di aiuto da dicembre 2007 a dicembre 2008. Comprendono 339 casi di “oggettiva” discriminazione, 511 chiamate di denuncia, in netto aumento rispetto agli anni passati. In maggioranza le segnalazioni vengono dal Nord e dal Centro Italia, Sud e Isole restano luoghi di approdo e di transito e di irregolarità permanente. Sono più di un terzo (39,4%) gli africani a denunciare. L’immigrazione africana nel nostro paese è quella più radicata nel territorio, quella più antica e quindi anche la più assidua tra gli utenti dell’UNAR. Anche l’Europa Orientale denuncia con una stima di segnalazioni di circa il 24,4% , utenti dell’America Meridionale e dell’Asia corrispondono invece al 12,3% e al 5% del totale.

Non c’è dubbio che nel caso degli africani sia proprio il colore della pelle a calamitare ordinario razzismo. Lo definisce “marcatore etnico” l’agenzia Redattore Sociale, da sempre vigile su questi fronti. L’identikit della vittima non ha solo a che fare con il rumore mediatico del clandestino, dell’irregolare, del fuggiasco che depreda la nostra terra. La vittima di razzismo ha 40 anni, è in Italia da circa 13 anni ed ha un lavoro regolare.

Usciamo dal resoconto dell’episodio sporadico, la scheggia fuori normalità non è più il codice narrativo giusto. Il Libro bianco sul razzismo in Italia, realizzato dall’associazione Lunaria, racconta di fenomeni sociali continui e reiterati, spesso “alimentati” da una legittimazione politica cui corrisponde una progressiva criminalizzazione dei clandestini. Sono 319 i casi di razzismo raccolti sulla stampa ufficiale in poco più di due anni.

Ma dietro a questi, scritti da pochi e pubblicati da nessuna parte, se ne nascondono molti altri. E’ emergenza. Una nebbia mista di silenzio e paura che seppellisce ogni diritto di cittadinanza e, prima ancora, ogni diritto umano. Vite invisibili. Gente cui il governo sta provando a chiedere di nascere su questa terra senza diventare italiani, rivendicando quindi un concetto etnico-preistorico di cittadinanza, bambini cui ha chiesto di essere istruiti secondo le logiche del ghetto, gente che può curarsi se accetta di barattare la salute ricevendo insieme alla prescrizione medica un capo d’accusa. Oscurantismo del diritto che in un’altra Europa forse avrebbe potuto generare una forma di stretta sorveglianza per le anomalie gravi della politica italiana sulla sicurezza.

Amnesty International dice chiaro che l’Italia non ha risolto la legittimità della detenzione dei migranti a Lampedusa. Tra i detenuti anche i richiedenti di diritto d’asilo. Quella materia su cui l’Italia, nelle carte della legge, ha dovuto – nel corso del 2008 – necessariamente adeguarsi alle Direttive Europee, pur mancando ancora di procedere con un testo organico e dettagliato.

Per tutta risposta c’è stata la progressiva trasformazione di Lampedusa da centro di soccorso a luogo di riconoscimento ed espulsione. Detenzione e procedure amministrative non pubbliche. Dalle 800 persone previste si è passati a 2.000, con le conseguenze igienico-sanitarie che possiamo immaginare. “Contrada Imbriacola”, l’altro centro per donne, minori, e richiedenti diritto d’asilo, distrutto dalle fiamme della protesta a febbraio 2009, è ancora fermo alla sua distruzione. Tutto tace sull’isola. Le coste sono battute dalla stessa tempesta, corpi zuppi di mare arrivano e finiscono, senza cavilli di diritto e rigore, in una prigione indistinta dove padrona è la politica del respingimento.

La non soluzione della velocità che rimanda tutti indietro. L’efficacia propagandata alla pancia degli italiani è un miscuglio di metodi antidemocratici e nostalgia sciovinista. Così ad aprile 2009 per quattro giorni una nave di migranti è stata abbandonata dall’Italia e da Malta, in una gara di rivendicazioni sul diritto d’asilo marittimo, dove l’unico dettaglio trascurabile è stato per entrambi gli stati il soccorso delle persone. Fino ad arrivare al rimpatrio di maggio scorso in Libia di circa 500 tra migranti e richiedenti asilo. Una decisione senza precedenti.

Nessuna di quelle persone, né le loro richieste, né i motivi della fuga hanno rappresentato un motivo umanitario, oltre che politico, per non procedere in modo indiscriminato. La visita dell’amico Gheddafi con la cornice circense che l’ha accompagnato e legato al nostro leader – che lo ha definito un “uomo intelligentissimo” per la lunga durata del suo governo – ha suggellato l’amicizia tra i due paesi. Un’amicizia che vale 500 storie e chissà quante altre. La xenofobia, il rifiuto dell’immigrazione è una declinazione contemporanea del razzismo che dall’alto non viene deliberatamente gestita, piuttosto esaltata. Ma persiste anche quello atavico, fatto di sangue e di colore negro.

Quello che accampava risibili criteri di scientificità, tra maccheronica antropologia e medicina, per documentare inferiorità di razze e colori. Quel razzismo lì non è sotto la cenere. Ne hanno parlato anche le grandi testate. Abbiamo letto di una città grande e ricca come Milano, dove un padre ha perso un figlio giovanissimo, un cittadino italiano con addosso il colore dei tropici: Abdul William Guibre.

E l’altro, scampato alla barbarie non di un’orda di bulli, ma di uomini in divisa: Bonsu Emmanuel Foster. Addirittura un ghanese. La colpa è stata ogni volta in cui le istituzioni non hanno saputo o voluto riconoscere che questi ed altri non erano episodi di violenza punto. Eccesso punto. Bullismo di vario titolo. Un’omissione consapevole, una comoda categoria incolore per occultare le differenze e le responsabilità. Per non intervenire. Se non per mettere, oggi e domani, un po’ d’ordine apparente in quegli squadroni che già si affrettavano ansiosi a
collezionare l’equipaggiamento dei nuovi luogotenenti del fronte. Folclore, dice Maroni. Sempre lui. Minimizzatore a convenienza.

Il male della storia non è arrivato quasi mai accompagnato da fanfare. Si arrotola come un ragno sotto traccia. Nella banalità giusto rotta da qualche fastidioso clamore. L’invisibilità sulle persone ne celebra la prima sepoltura. Quella di cui nessuna parla se non quando è ormai tardi, quando gli uccisi saranno diventati solo morti. Così prima ancora di renderle vittime, diventano puntini neri che ondeggiano nel mare. Come ingoiati nel blu e nella rete. Uomini come pesci per poter dire che no, non è razzismo.