Medio Oriente. Un groviglio di problemi, speranze e contraddizioni

di David Gabrielli
da www.confronti.net

Nel suo viaggio in Giordania, Israele e Betlemme, il papa ha incontrato realtà, politiche e religiose, diversificate. Le sue parole e i suoi gesti hanno provocato sia applausi che sconcerto, soprattutto a Gerusalemme, la Città santa specchio di una situazione ove la pace nella giustizia non riesce a fiorire. Il viaggio in Terra santa di Benedetto XVI (che dall’8 al 15 maggio ha visitato Giordania, Israele e Cisgiordania) era obiettivamente complesso, perché implicava aspetti religiosi e geopolitici assai differenti, seppur inscindibilmente mescolati. Perciò, per una sua valutazione – provvisoria – e per metterne in evidenza ombre e luci conviene, ci sembra, considerare distintamente i vari temi ed eventi implicati.

Islam: sanata la ferita di Ratisbona?

Ad Amman, papa Ratzinger – la cui prima visita è stata ad un centro per handicappati, persone particolarmente emarginate in Giordania – è entrato nella nuovissima moschea che il sovrano regnante, Abdullah II, ha dedicato al padre Hussein deceduto nel 1999; era la sua seconda visita del genere, dopo quella alla moschea Blu di Istanbul, nel 2006. Ma, hanno precisato fonti vaticane, nella moschea «il papa non ha pregato, si è solo fermato in raccoglimento, per rispetto al luogo sacro per i musulmani». Poi, in un cortile adiacente, il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, cugino del re, ha ringraziato il pontefice «per il “dispiacere” da lei espresso dopo il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, discorso che provocò molta pena ai musulmani». Parlando all’università della città tedesca, il papa aveva citato queste parole che l’imperatore bizantino Manuele II aveva rivolto nel 1391 ad un musulmano: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».

Le aspre reazioni nel mondo musulmano a tale frase avevano costretto il pontefice a precisare che, citandola, non aveva voluto approvare l’opinione di Manuele II (vedi Confronti, 11/2006). E Ghazi ha appunto ringraziato il papa per la «chiarificazione». Molti si sono chiesti, comunque, quale fosse la ragione per la quale il principe avesse evocato un «incidente» da lui stesso considerato chiuso: un modo diplomatico per ricordare a Ratzinger la «inammissibilità», oggi e domani, di giudizi frettolosi sull’islam? Oppure un messaggio ad alcuni movimenti islamici estremisti, polemici contro la visita papale, per rassicurarli che il regno hashemita di Giordania, pur ricevendo il capo della Chiesa cattolica, non aveva scordato la «ferita» di Ratisbona?

Ghazi aveva anche citato Una parola comune tra noi e voi, la lettera aperta che, il 13 ottobre 2007, 138 personalità musulmane – poi se ne aggiunsero altre duecento – avevano inviato ai leader cristiani iniziando proprio da Benedetto XVI. Il testo sosteneva che, pur nelle loro invalicabili differenze, Corano e Bibbia fondano l’agire del credente sull’amore di Dio e l’amore del prossimo. Rispondendo al principe, il papa ha sottolineato: «Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono». E rilevato: «Il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato», anche se «spesso è la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società». Pensiero che lo stesso giorno a Madaba (40 km. da Amman) aveva così sviluppato: «La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso».

Ma nel viaggio papale il momento simbolico più alto, rispetto all’islam, è stato quando il 12 maggio Ratzinger, a Gerusalemme, nella spianata delle moschee ha visitato la Cupola della Roccia (che ricorda la vicenda di Abramo). Al gran muftì di Gerusalemme, Muhammad Ahmad Hussein, il pontefice ha detto: «La Cupola della Roccia conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali [ebraismo, cristianesimo, islam] si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune. Ciascuna crede in un solo Dio, creatore e regolatore di tutto. Ciascuna riconosce Abramo come proprio antenato, un uomo di fede al quale Dio ha concesso una speciale benedizione».

Una Shoah… orfana

Arrivando l’11 maggio in Israele, accolto all’aeroporto dal presidente Shimon Peres, il papa ha detto di voler «onorare la memoria dei sei milioni di ebrei vittime della Shoah [Olocausto]», e ha definito «totalmente inaccettabile l’antisemitismo», che «continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo». E, la sera dello stesso giorno, a Gerusalemme, a Yad Vashem, il memoriale della Shoah: «Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente». Queste parole che, pronunziate nelle stanze vaticane, potevano sembrare adeguate, sono state invece considerate reticenti e insufficienti in Israele. Ha sconcertato il fatto che il papa tedesco non abbia colto l’occasione di un solenne mea culpa per le responsabilità naziste della Shoah; che abbia ignorato le responsabilità delle Chiese per aver seminato, nei secoli, l’antisemitismo; che abbia taciuto sulla complicità di larga parte dei cristiani tedeschi – salvo nobili eccezioni – con il regime nazista.

Il presidente di Yad Vashem, il rabbino Israel Meir Lau, un sopravissuto dei lager nazisti, ha sottolineato come il papa avesse parlato di milioni di ebrei «uccisi», invece che «assassinati», «ma tra i due verbi vi è una drammatica differenza… Nelle parole di Benedetto XVI è mancato qualcosa: se non una scusa, almeno una parola di rimorso». Avner Shalev, capo del direttorato di Yad Vashem, si è rammaricato per la mancata condanna dei nazisti e dei tedeschi da parte di un pontefice che, da giovane, «servì nella Hitler Jugend e nella Wehrmacht» [il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, prima ha negato che Ratzinger avesse fatto parte della gioventù hitleriana, e poi ha precisato che fu costretto ad iscriversi, pur essendo egli del tutto avverso al nazismo]. E, il quotidiano Jerusalem Post, il 12 maggio: «A Yad Vashem il papa non ha espresso neppure una piccola scusa a nome della Chiesa cattolica, provocando una palpabile delusione tra quegli israeliani che si aspettavano uno storico discorso da parte di un papa tedesco». E Haaretz: «Giovanni Paolo II fu ricevuto in Israele [nel marzo 2000] con un entusiasmo che rasentava quello riservato alle pop star. Invece, e nel miglior scenario, Benedetto XVI lascerà dietro di sé indifferenza, piuttosto che ostilità… Non ci sarebbe stata campana di chiesa che avrebbe cessato di suonare se il pontefice avesse detto qualcosa sull’antisemitismo cristiano, e avesse precisato che senza di esso i nazisti non avrebbero ottenuto l’appoggio del popolo tedesco… Benedetto ha parlato dell’Olocausto in termini astratti. Qu
esti possono avere un posto nella sala-conferenze di un professore tedesco di teologia, ma nell’era di Internet sono poco più che vuote banalità».

Tuttavia altri – tra essi lo stesso Shalev, e poi Peres – hanno sottolineato l’importanza del fatto stesso che, in un’epoca in cui alcuni negano la Shoah, il papa si sia recato a Yad Vashem ed abbia condannato l’antisemitismo. Da parte sua, il 12 maggio il papa aveva pregato davanti al Muro del pianto; e, subito dopo, nella sede del gran rabbinato aveva proclamato: «Oggi ho l’opportunità di ripetere che la Chiesa cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano II per una autentica e durevole riconciliazione fra cristiani ed ebrei». E, in partenza per Roma, ricordava la sua visita di tre anni fa «al campo di sterminio di Auschwitz, dove così tanti ebrei furono brutalmente uccisi sotto un regime senza Dio che diffondeva un’ideologia di antisemitismo e di odio. Quel capitolo orribile della storia non deve essere mai dimenticato o negato». Ma, ancora una volta, senza nominare il regime nazista. Perciò la mattina del 15 Haaretz anticipava: «Mentre scriviamo, Benedetto XVI è ancora in Israele ma, a meno che egli non dica qualcosa di totalmente inaspettato nell’ultimo giorno della sua visita, il suo pellegrinaggio in Terra santa scivolerà via come totalmente irrilevante e non memorabile».

Per una sorta di tacito accordo, sia il papa che le autorità israeliane non hanno sollevato la controversa questione di Pio XII: fece di tutto per salvare gli ebrei (tesi vaticana), o non osò un grido profetico e la denuncia della Shoah (tesi di Yad Vashem)?

Un fragile ecumenismo

L’incontro con i leader di tutte le Chiese cristiane (sono tredici, a Gerusalemme) si è svolto al patriarcato greco-ortodosso, là accolto da Theophilos III. Il papa ha ricordato lo «storico incontro» che ebbe luogo nella Città santa, nel gennaio 1964, tra Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora I: il primo, dopo oltre cinquecento anni, tra il vescovo della «prima» Roma e quello della «seconda». Ha proclamato «imperativo» che i capi cristiani e le loro comunità testimonino la loro fede nella «Parola eterna, che entrò nello spazio e nel tempo in questa terra, Gesù di Nazareth»; e li ha invitati a continuare a collaborare «perché si comprenda che le aspirazioni dei cristiani di Gerusalemme sono in sintonia con le aspirazioni di tutti i suoi abitanti, qualunque sia la loro religione: una vita contrassegnata da libertà religiosa e da coesistenza pacifica», e da concrete possibilità, anche economiche, di vita.

Raccomandazioni di buon vicinato; ma – secondo molti – sono rimaste inespresse le ragioni storiche e teologiche delle radici della divisione tra le Chiese, che impedisce loro la comunione eucaristica, e perpetuano una oggettiva contro-testimonianza proprio là ove Gesù implorò che i suoi discepoli fossero «uno».

«Cristiani, restate in Terra santa»

Agli inizi del Novecento nella Palestina dominata dai turchi ottomani (e composta dagli attuali Israele e Territori palestinesi) l’insieme dei cristiani di tutte le Chiese era il 13% della popolazione; oggi, nello stesso spazio, su una popolazione complessiva di undici milioni di abitanti, essi sono l’1,7%, di cui circa la metà cattolici – di vari riti: preponderanti quello greco-melkita e quello latino. In Giordania, su 5,7 milioni di abitanti, i cristiani sono l’1,9% della popolazione. Ovunque continuano a diminuire: l’emorragia, se non fermata, fa prevedere tra pochi decenni la quasi scomparsa dei cristiani «autoctoni» dalla terra di Gesù. In tale contesto, rivolgendosi prima di tutto ai suoi fedeli, ma inglobando anche gli altri cristiani, ripetuto è stato l’invito del papa a restare: «La presenza cristiana nella Terra Santa e nelle regioni vicine [riferimento soprattutto alla penosa situazione dei cristiani in Iraq] è di importanza vitale per il bene della società nel suo insieme… I cristiani nel Medio Oriente, insieme alle altre persone di buona volontà, stanno contribuendo, come cittadini leali e responsabili, nonostante le difficoltà e le restrizioni, alla promozione ed al consolidamento di un clima di pace nella diversità». Essi perciò vanno invitati «a rimanere e ad affermarsi qui nella terra dei loro antenati ed essere messaggeri e promotori di pace» (discorso nel Cenacolo, 12 maggio).

E in serata, durante la messa celebrata nella «Valle di Giosafat» di Gerusalemme, ha accennato «alla tragica realtà – che non può mai cessare di essere fonte di preoccupazione per tutti coloro che amano questa Città e questa terra – della partenza di così numerosi membri della comunità cristiana negli anni recenti. Desidero oggi ripetere quanto ho detto in altre occasioni: nella Terra Santa c’è posto per tutti!».

Servirà anche a favorire la permanenza dei cristiani in Terra santa la nuova università cattolica che sorgerà a Madaba in Giordania, e la cui prima pietra è stata posta dal papa. «Ma alla base dell’emigrazione, soprattutto di quella cristiana – aveva ricordato al pontefice, ad Amman, il patriarca greco-melkita Gregorios III Laham – vi è il conflitto arabo-israeliano, che ha causato e continua a causare guerre, calamità, spinte al fondamentalismo, crescita della violenza e della risposta alla violenza con la violenza, le cui vittime si contano a migliaia tra i nostri figli e figlie in questo Medio Oriente, in tutte le comunità cristiane, musulmane ed ebraiche».

Per favorire pace e riconciliazione in Medio Oriente, più volte il papa ha invitato le varie religioni, e soprattutto le tre abramitiche, al dialogo. Ha detto Ratzinger l’11 maggio, incontrando all’istituto vaticano Notre Dame, a Gerusalemme, le organizzazioni impegnate nel dialogo interreligioso: «La fede religiosa presuppone la verità. Colui che crede è colui che cerca la verità e vive in base ad essa. Benché il mezzo attraverso il quale noi comprendiamo la scoperta e la comunicazione della verità differisca in parte da religione a religione, non dobbiamo essere scoraggiati nei nostri sforzi di rendere testimonianza al potere della verità. Insieme possiamo proclamare che Dio esiste e che può essere conosciuto, che la terra è sua creazione, che noi siamo sue creature… Amici, se crediamo di avere un criterio di giudizio e di discernimento che è divino nella sua origine e destinato a tutta l’umanità, allora non possiamo stancarci di portare tale conoscenza ad influire sulla vita civile. La verità getta luce sulla fondazione della moralità e dell’etica». E, ancora, ha auspicato che «le nostre differenze» non rappresentino «un’inevitabile sorgente di frizione o di tensione sia tra noi stessi sia, più in largo, nella società» ma, piuttosto, «una splendida opportunità per persone di diverse religioni di vivere insieme in profondo rispetto, stima e apprezzamento, incoraggiandosi reciprocamente nelle vie di Dio».

Parole che hanno un sapore assai differente da quelle affermate il 6 agosto 2000 dal cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione Dominus Iesus, poi ribadita da papa Ratzinger: «I seguaci delle religioni non cristiane oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici». E poi: quelle nate dalla Riforma del XVI secolo «non sono Chiese in senso proprio». A Gerusalemme il pontefice non ha osato lo stesso registro, né ai non cristiani ha ricordato che, secondo la dottrina cattolica, è infine il magistero ecclesiastico guidato dal papato che stabilisce «la verità», e a tutti ricorda che Gesù ha detto: «Io sono la verità». Come saldare armonicamente i diversi accenti papali? E poi: è solo «la verità» (religiosa) che «getta luce sulla fondazione dell’etica»? Del resto, a tutt’oggi anche contrastanti motivazioni religiose rendono inestr
icabili i conflitti che gravano sul Medio Oriente.

Un assaggio di tale tormentata problematica lo si è visto proprio durante l’incontro a Notre Dame: salito sul palco come oratore non previsto, il giudice palestinese Tayseer Tamimi ha accusato Israele – e nella sala vi erano diversi rabbini – di opprimere i palestinesi, di rapinare le terre arabe, di aver fatto stragi di bambini a Gaza. L’imbarazzo provocato da tali parole ha costretto il Vaticano a chiudere anzitempo l’incontro; e Lombardi ha definito l’intervento dello sceicco «una negazione del dialogo». Da parte sua, la mattina di quel giorno Israele aveva impedito una conferenza stampa, in un hotel della parte est della città, del gran muftì di Gerusalemme e del patriarca latino emerito di tale città, monsignor Michel Sabbah. Allora la più alta autorità religiosa musulmana della Città santa ha tenuto una conferenza stampa vicino ad una tenda, in un campo pietroso, nel quartiere arabo, per «denunciare la prepotenza israeliana».

«Due Stati» per risolvere il conflitto israelo-palestinese

All’arrivo in Israele il papa ha auspicato: attraverso i «negoziati di pace fra israeliani e palestinesi, ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti». E, alla partenza: «Mai più spargimento di sangue! Mai più combattimenti! Mai più terrorismo! Mai più guerre! Venga universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti! Sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente e sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente! Fate in modo che la soluzione dei due-Stati divenga una realtà, non rimanga un sogno!».

Ma ancor più chiaro era stato il pontefice, il 13 maggio, a Betlemme, l’unica città palestinese da lui visitata nei Territori occupati, rispondendo al saluto di benvenuto del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen): «La Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti… Prego anche perché, con l’assistenza della Comunità internazionale, il lavoro di ricostruzione possa procedere rapidamente dovunque case, scuole od ospedali siano stati danneggiati o distrutti, specialmente durante il recente conflitto in Gaza… Rivolgo un appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni, suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo».

E al campo profughi di Aida, presso Betlemme al cui ingresso avevano messo una grande chiave, simbolo della casa perduta con la Nakbah: «Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato palestinese indipendente, restano incompiute… Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio, è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra israeliani e palestinesi: il muro. In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri». Ad Aida il palco papale era posto a pochi metri dal muro (costruito da Israele allo scopo dichiarato di impedire l’accesso di kamikaze nel suo territorio, e di isolare la Cisgiordania); perciò le tv, inquadrando il pontefice, mostravano sullo sfondo, incombente, il serpentone del muro, alto una decina di metri.

Nei suoi discorsi papa Benedetto non ha parlato di occupazione israeliana dei Territori, né di insediamenti, né delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu che richiedono il ritiro di Israele da(i) Territori occupati nella Guerra dei sei giorni del 1967, ma i palestinesi, in generale, con il pontefice presente hanno sorvolato su tali silenzi, sottolineando invece le sue affermazioni sul loro diritto ad una patria indipendente. Ma quanto tale «sogno» sia arduo lo ha dimostrato il colloquio del 18 maggio, a Washington, tra il presidente Barack Obama e il premier israeliano Benyamin Netanyahu: il primo favorevole ai «due Stati» (ma con quali confini?), il secondo contrario, e orientato ad espandere ulteriormente gli insediamenti nella Valle del Giordano. Ma se anche l’attuale capo della Casa bianca fallisce, a Gerusalemme e dintorni (sullo sfondo vi sono l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita, il Libano, la Siria, l’Egitto, con i loro specifici problemi) scoppierà una tempesta di proporzioni gigantesche.