Che cos’è una rivoluzione iraniana?

di Sara Hejazi
da www.peacereporter.net

Dopo le elezioni iraniane del 12 giugno sembra di vivere due Iran distinti. Il primo è quello di tutti i giorni, dove di rivoluzioni se ne vedono poche. La vita continua come sempre per i bazarì, i commercianti, per chi lavora, per le famiglie, per chi va a fare il pellegrinaggio, per chi prega, per i milioni di iraniani che abitano le periferie delle città e quindi del mondo, gli artigiani, i pastori, le tessitrici di tappeti, quelli che sembrano rimasti fermi nel tempo e nello spazio.

L’altro è un Iran delle università, raccontato da diverse voci: prima tra tutte Voice of America, il canale satellitare che trasmette in lingua farsi da Londra e Washington. E’ la televisione degli emigrati iraniani di successo, quelli appartenenti alle classi medio alte all’epoca dello shah e che hanno lasciato il Paese dopo la rivoluzione del 1979.

Tutte le sere dopo cena ci sediamo a guardare e commentare le notizie e le immagini del giorno: sono immagini incredibili di una folla in rivolta, di violenza, di guerra, di rivoluzione. L’altra voce che parla dell’università è il passaparola: qualsiasi conoscente si incontri per la strada fornisce notizie sui fatti: quasi sempre un cugino, un amico, un vicino universitario si trovava per caso nella mischia ed è stato preso, picchiato e minacciato. L’ultimo aggiornamento è che sono morte otto persone e ottanta sono state imprigionate.

Questa scissione tra un Paese raccontato e rappresentato come in rivolta e un Paese vissuto, reale, tangibile nella vita di tutti i giorni crea grande confusione. La sorprendente mobilitazione sociale di cui si parla è quasi invisibile, per lo meno dove mi trovo ora, nella città di Mashad, anche se la presenza della polizia per le strade è raddoppiata rispetto a qualche settimana fa. Ma la cosa che più crea confusione tra la gente comune fuori dalla capitale è per quale motivo si sia giunti a questo, e se Mir Hussein Mousavi un uomo di governo, possa da solo bastare a mobilitare un numero così grande di persone, possa insomma assurgere da semplice candidato alle presidenziali quali è stato a ideale politico, a simbolo del cambiamento, a causa per la quale essere disposti a sacrificare anche la vita.

Forse per chiarire questa situazione nebulosa, che tormenta un po’ tutti gli iraniani in questi giorni, bisogna considerare come l’Iran è stato rappresentato e costruito sia all’estero che al suo interno: una nazione in costruzione soprattutto a partire dagli anni Trenta del Novecento con un’opera di modernizzazione forzata dall’alto per mano di un Re- dittatore. Per creare la nazione-Iran si è dovuto sopprimere e perseguitare le minoranze religiose ed etniche, si è cercato di cancellare alcuni tratti culturali considerati segno di arretratezza, si è fatta una rivoluzione islamica per definire meglio e omologare l’identità nazionale in senso religioso e poi si è fatta una guerra con l’Iraq, un ulteriore contributo alla causa nazionale.

Ma ora tra i giovani universitari iraniani che hanno culturalmente accesso al resto del mondo (e la cui vita non differisce gran che da quella dei coetanei europei o americani) e il resto dell’Iran, quella delle periferie, ci sono profondi abissi culturali ed economici, nonostante sulla carta la nazionalità sia la stessa.

Può darsi dunque che le elezioni siano state pilotate e truccate, ma la popolarità di Mahmud Ahmadinejad nel paese è reale, è tangibile e si è manifestata durante la campagna elettorale di queste settimane.
Così come è tangibile la voglia di cambiamento e la frustrazione dei giovani iraniani delle università rispetto al proprio governo. Non è Mussavi il motore di questa mobilitazione, ma la voglia di libertà di questa generazione cresciuta sotto la repubblica islamica, di essere, come dicono qui, azadeh, liberi di esprimersi e di vivere non dovendo per forza aggirare il controllo del governo sulla loro quotidianità, ma alla luce del sole, nello spazio pubblico. Perché se è vero che in Iran i giovani universitari conducono vite simili ai coetanei occidentali, è anche vero che lo fanno sempre inventando escamotage per riuscirvi, dovendo ogni volta spostare i confini dell’islamicamente lecito e illecito.

Ora stanno rischiando anche la vita per questi confini immaginati, ed è strano come in una sorta di rivoluzione giovanile del 2009 sia propria l’ideologia politica la grande assente, il grande vuoto della mobilitazione, perché l’energia e la rabbia dei ragazzi di Teheran, covata probabilmente da sempre, sembra bastare a se stessa e non ha bisogno di filosofie e ideali.