La scuola di Gelmini-Tremonti: un vuoto a perdere

di Cosimo Pierre
da dazebao.org

Riflessioni di fine anno scolastico. La diminuzione degli investimenti nell’istruzione non potrà che portare ad un impoverimento del settore. L’aumento delle bocciature è il certificato del fallimento dei processi di apprendimento.

Anno scolastico chiuso, scrutini effettuati, calcolato il voto di condotta, fatte le medie, ammessi e non ammessi gli alunni del quinto agli esami di stato che iniziano ufficialmente domani. La scuola ha vissuto un anno difficile, con la parvenza di una “riforma” – quella prospettata dal duo Gelmini-Tremonti già l’estate scorsa – destinata a togliere risorse finanziarie al sistema pubblico, invece che incrementarle come qualsiasi logica avrebbe postulato.

Intanto docenti, famiglie ed alunni attendono il prossimo anno scolastico, l’ultimo prima dell’introduzione di un rivolgimento complessivo dei corsi di studio improntato esclusivamente a contemperare la diminuzione dei finanziamenti con l’organizzazione di ore, lezioni e materie di insegnamento. Dal 2010, infatti, cambierà tutto, i licei, l’istruzione tecnica e quella professionale dovranno fare i conti con una politica degli investimenti nel capitale umano ispirata al risparmio perché – questo è quanto si vuole far comprendere alla società italiana – fino ad ora si è speso troppo e male, si sono assunti troppi insegnanti, troppo personale ausiliario, si sono fatte ore di materie considerate inutili. Ma è proprio così?

I rivolgimenti dell’era Gelmini-Tremonti mal si conciliano con la logica economica di un settore strategico qual è indubbiamente quello del capitale umano. Secondo la teoria economica, infatti, il ruolo del capitale umano (che qui possiamo far coincidere con l’istruzione) è essenziale per la crescita economica di un sistema. Quest’ultima dipende, in misura assai elevata, dagli investimenti che Stato e imprese effettuano sulla preparazione delle persone, soprattutto giovani. Ora, il Governo cerca di far passare il taglio delle risorse finanziarie alla scuola e all’università semplicemente sotto le sembianze di una diminuzione degli sprechi. Cioè, in altri termini, si spende di meno perché prima si spendeva troppo e inutilmente.

Ma le cose non stanno affatto in questo modo. Scuola e università avrebbero bisogno di budget più rilevanti, come sa chiunque lavori in questi settori. Poi, è necessario comprendere che cosa si intende per “sprechi”. Se si concepisce come tale il fatto che un insegnante abbia una classe di venti alunni, invece di trenta (come accadrà nella scuola disegnata da Gelmini-Tremonti), in realtà non si è di fronte ad uno spreco ma al suo opposto, cioè ad un investimento, perché lavorare con venti alunni invece che con trenta aumenta l’efficacia dell’apprendimento e la possibilità, per l’insegnante, di operare i dovuti controlli della preparazione individuale dei suoi allievi.

Il duo Gelmini-Tremonti vuole dimostrare che si è chiusa l’era della scuola post-sessantotto, un scuola lassista, secondo il duo. Comprensibile il loro tentativo. Non potendo mostrare un serio impegno nel settore delle politiche scolastiche, ma tutt’al contrario, un disimpegno finanziario, è evidente che dovevano volgere gli occhi al passato, servendo in tavola un piatto riscaldato e inzuppandolo di spezie per coprire l’afrore del rancido. Così si è pensato di rispolverare il voto in condotta (mai ufficialmente abolito), anche se non la dizione “sospensione da tutte le scuole del Regno”, perché nel frattempo è cambiata la forma di Stato, inducendo gli ingenui (molte famiglie e molti insegnanti vi hanno infatti prestato fede) a credere che la ribollita potesse servire a sfamare la scuola pubblica del terzo millennio.

Naturalmente il voto in condotta non serve a niente dal punto di vista degli investimenti in capitale umano, perché questi possono contribuire all’aumento delle capacità degli individui (conoscenze-saper fare, cioè teoria e applicazione concreta) soltanto se incrementano effettivamente il patrimonio di know-how dei giovani e non, astrattamente, il loro contegno o il loro comportamento, che, per quanto importante, dovrebbe essere associato al principale parametro di valutazione, che è, appunto, quello del patrimonio di conoscenze acquisite.

L’ultima ricerca effettuata dall’Ufficio studi della Banca d’Italia mostra come la categoria degli insegnanti sia quella dove più emerge un rapporto diretto fra votazione di laurea e abbandoni della carriera, nel senso che più alta è stata la votazione all’esame di laurea e maggiori risultano le dimissioni dalla cattedra. Ciò è spiegabile con il fatto che questo lavoro è oramai considerato marginale nella società, soprattutto in termini di reddito. Un bravo fisico, matematico, giurista, economista, linguista o storico dell’arte, difficilmente oggi decide di tentare la carriera scolastica, soprattutto perché è poco remunerativa.

Progressivamente, dunque, finiscono per scegliere questa professione in massima parte le donne (per i noti problemi dei carichi familiari loro assegnati, che le inducono a scegliere un’occupazione con orario dimezzato rispetto alle altre) e i laureati meno brillanti, con i risultato che possiamo immaginare in termini di efficacia dell’insegnamento. La scarsezza dei finanziamenti all’istruzione non consente di investire su laboratori, biblioteche, palestre, dove si possa fare ricerca (già, perché anche nella scuola si dovrebbe fare ricerca non solo nell’università), né tantomeno sui docenti che, ad esempio, non hanno nessun incentivo nell’accrescere e arricchire la loro preparazione e così finiscono per spiegare agli alunni sempre la stessa lezione, sempre lo stesso pensiero, come meri impiegati della conoscenza.

E così, ritenere semplicisticamente che l’aumento dei non ammessi agli esami di Stato è indice di un miglioramento dell’efficacia scolastica è un errore logico, perché è vero tutto il contrario: un alunno che deve ripetere l’anno è un individuo verso il quale l’istituzione scolastica ha fallito, perché non è riuscita a trasferire in lui il desiderio di crescere intellettualmente.