Iraq, the day after

di Christian Elia
da www.peacereporter.net

L’errore più grande che si potrebbe fare in questo momento sarebbe quello di credere che in Iraq il peggio sia passato. In due giorni sono accaduti eventi importanti, senza dubbio, ma la situazione del Paese resta molto instabile.

Prima i militari Usa hanno completato il loro ritiro dai centri abitati, come prevede il piano di disimpegno sostenuto dal presidente statunitense Obama e poi, in diretta tv, sono stati messi all’asta i primi lotti petroliferi che segnano il ritorno in Iraq delle multinazionali dell’oro nero dopo trenta anni.

Due eventi importanti, senza dubbio. Molto resta da fare, però, prima che la situazione in Iraq torni normale. Almeno per quanto potrà essere serena la vita di un Paese che non conosce tregua dal 1980. ”Sono arrivato in Iraq per la prima volta nel 1977, quando il futuro sembrava roseo, ma risultò che mi trovavo nel Paese all’apice delle sue fortune, una marea che da allora è andata sempre rifluendo”, scriveva ieri sul quotidiano britannico The Indipendent l’inviato Patrick Cockburn.

”Gli iracheni sono stati inghiottiti da disastri successivi: la guerra Iran-Iraq durata otto anni a partire dal 1980, la sconfitta in Kuwait nel 1991, le rivolte sciite e curde soffocate nel sangue nello stesso anno, le sanzioni delle Nazioni Unite equivalenti a un assedio lungo tredici anni che ha completamente distrutto l’economia e mandato in frantumi la società: l’invasione Usa del 2003; la guerra degli arabi sunniti contro l’invasione statunitense fino al 2007 e la guerra civile tra sunniti e sciiti nello stesso periodo”.

Un bilancio tragico, costato la distruzione di un Paese e la morte di milioni di suoi cittadini. Oggi, però, qualcosa si muove, a cominciare dal ritiro delle truppe Usa dai centri cittadini.

Divieto di transito. Bisogna chiarire subito che quello completato ieri non va confuso con il ritorno in patria delle truppe statunitensi. I militari di Washington rimangono in Iraq, come detto dal presidente Obama, fino alla fine del 2011. Come da accordi con il governo iracheno, però, smettono di pattugliare le strade, di controllare i check-point che non siano nei pressi delle loro basi o degli edifici dove alloggia personale Usa e smettono di effettuare rastrellamenti e azioni militari che non siano di supporto eventuale all’esercito iracheno.

Considerato il numero di vittime civili causato dalle truppe Usa e dagli attentati che avevano come obiettivo i militari a stelle e strisce questa è una buona notizia. Non tutti i problemi sono risolti, come dimostra l’esecuzione di due impiegati britannici rapiti e uccisi a Baghdad nei giorni scorsi.

Tante situazione restano irrisolte. In primo luogo l’Iraq è oggi un luogo di gran lunga più sicuro di quanto è stato negli ultimi anni grazie soprattutto al lavoro delle milizie sunnite, i cosiddetti Consigli del Risveglio. Il loro apporto, però, non è mai stato visto di buon occhio dal governo centrale di Baghdad, che rivendica una centralità sciita da non mettere in discussione. Dopo anni passati a essere governati dalla minoranza sunnita non hanno alcuna voglia di trovarsi a gestire milizie ben armate e ben addestrate di sunniti. Queste non accetteranno a loro volta di essere smilitarizzate.

Stesso discorso per i curdi, sostanzialmente indipendenti. Con la loro economia e il loro nucleo militare. Baghdad, se vuole ancora essere la capitale dell’Iraq, dovrà trovare un punto di equilibrio tra le anime di un Paese a pezzi che, per essere ricostruito, ha bisogno dell’aiuto di tutti.

In nome della trasparenza, sempre ieri, è andata in scena in diretta televisiva la prima asta del governo iracheno per l’assegnazione dei lotti di sfruttamento dei pozzi petroliferi del giacimento di Rumalia. Un giacimento enorme, nell’Iraq meridionale, con riserve stimate in 18 miliardi di barili.

Ha vinto un consorzio guidato dalla British Petroleum (Bp) che comprende anche i cinesi della China National Petroleum Corporation (Cnpc). Battuta l’offerta di un altro consorzio facente capo alla statunitense Exxon Mobile, in cooperazione con la malese Petronas. Il ministro del Petrolio iracheno, Hussein al-Shahristani, ha tirato un sospiro si sollievo. Il governo di Baghdad, dopo l’insurrezione della stessa compagnia nazionale irachena South Oil Company e i sindacati iracheni del petrolio, oltre che di alcuni deputati, è riuscita a piazzare i lotti alle sue condizioni.

La Bp guadagnerà solo due dollari al barile, in quanto non partecipa agli utili ma figura solo come prestatrice di un servizio. L’Iraq, dunque, non vende alle multinazionali del petrolio il suo greggio, ma le paga per essere aiutato a ottimizzare lo sfruttamento dei giacimenti con tecnologie che al momento non sono alla portata dell’apparato petrolifero iracheno.

Quindi il governo iracheno offriva un prezzo che ha fatto scappare molti pretendenti, ma che ha almeno per il momento messo a tacere le voci dissidenti secondo le quali svendeva il Paese. Secondo Shahristani, con questo accordo, affluiranno nelle casse del governo di Baghdad 17mila miliardi di dollari nei venti anni previsti dall’accordo.

Alla Bp dovrebbero andare, a regime, 30 miliardi di dollari. I proventi della vendita del petrolio, poi, saranno investiti, a detta del ministro, nella ricostruzione del Paese. Adesso bisogna vedere come andranno le cose e come si svolgeranno le aste per gli altri giacimenti.

La sensazione, Rumalia a parte, è che molte compagnie ritengano i due dollari un prezzo troppo basso, ma un prezzo più alto farebbe infuriare l’opinione pubblica interna. Buone notizie, insomma, ma in Iraq non è ancora finita la nottata.