L’inizio della fine

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info

La sentenza della cronaca sulla guerra irachena è arrivata molto prima di quella della musa Clio. George Bush, che lasciando la Casa bianca aveva detto che sarebbe stata la storia a giudicare la sua decisione di invadere l’Iraq, dovrà ricredersi: la sentenza è già stata pronunciata e scritta. Non dagli oppositori al suo governo e neppure da coloro che ne hanno preso il posto, ma dagli iracheni

L’inizio del ritiro delle truppe americane dalle città – la prima tappa del ritiro definitivo e totale che ci sarà tra poco più di un anno e mezzo – è stato salutato dalla popolazione, dalle forze armate, dalla polizia, dal mondo politico iracheno con manifestazioni di giubilo. Il governo aveva stabilito che il giorno designato fosse festivo: l’intenzione non era tanto di festeggiare quanto di chiudere i negozi e i mercati per prevenire disordini e attentati. Ma i festeggiamenti ci sono stati ugualmente (oltre ad un sanguinoso attentato a Kirkuk), numerosi e spontanei. In strada sono scesi poliziotti festanti che agitavano i kalashnikov. Gente comune intervistata ha manifestato la propria contentezza. Gli esponenti politici, che pure sanno che potrebbero avere ancora bisogno degli americani, sono stati più cauti, ma hanno pur sempre parlato di un successo del popolo e del governo iracheni.
Il paradosso è che questa guerra, iniziata per scovare e distruggere le armi di distruzione di massa (che non furono mai trovate), continuata per liberare l’Iraq da un feroce dittatore e per portare al paese la democrazia ha sempre avuto contro la popolazione irachena, senza distinzioni di etnia o di appartenenza religiosa. Sciiti, sunniti, curdi e le altre minoranza erano tutti contrari, o lo sono diventati appena Saddam Hussein è stato cacciato.

Gli sciiti, divisi tra i partiti filogovernativi più moderati nel loro antiamericanismo, e quelli “radicali” del partito di Moqtada al-Sadr; i sunniti altrettanto divisi al loro interno (oltre che dagli sciiti) tra i filosaddamiti e gli estremisti simpatizzati di al-Qaeda in Mesopotamia. I curdi, che pure si attendevano dall’America – loro sì – la liberazione dal dominio brutale di Saddam, contrari alla presenza di un esercito occidentale alleato della Turchia che poteva frenare le loro ambizioni di costruire un grande Kurdistan a cavallo tra Iraq, Iran, Siria. Tutti uniti, più che dal sentimento nazionale (dopotutto l’Iraq è uno stato giovane e il panarabismo è ben più forte del nazionalismo iracheno), dall’avversione nei confronti dell’invasore prima e occupante poi.

In tutti questi anni di carneficine, di distruzioni, di attentati e di rappresaglie, gli iracheni hanno giocato, ognuno per suo conto e nel suo ruolo specifico, una complessa partita: cercare di trarre vantaggio dalla presenza dei soldati americani e allo stesso tempo combatterla; accaparrarsi la fetta maggiore possibile dell’immensa quantità di denaro e di aiuti che governo e aziende americane riversavano e riversano ogni giorno, e allo stesso tempo rimanere in sintonia con l’ostilità della popolazione verso gli americani; trarre benefici dalle leve della corruzione e del potere che la guerra aveva messo nelle loro mani e allo stesso tempo apparire riformatori e liberatori – prima da Saddam, poi dagli americani.

Adesso, dopo sei anni di guerra, gli americani incominciano ad andarsene lasciando sul campo quasi 4500 morti e decine di migliaia di feriti, miliardi di dollari buttati al vento per ricostruire uno stato e una economia che è stato necessario distruggere per potere ricostruire. Dal punto di vista di coloro che avevano denunciato “la guerra per il petrolio” e anche da parte di quelli che l’avevano voluta, il bottino è assai magro: la produzione petrolifera irachena è ancora più bassa di quanto fosse prima della guerra, il prezzo del carburante a Baghdad è molto inferiore a quello che pagano gli americani in patria e – colmo della beffa – il governo iracheno non sembra affatto intenzionato a dare l’esclusiva delle trivellazioni e della raffinazione alle società americane.
Dal punto di vista militare la guerra è stata un fallimento completo. Quella che doveva essere una guerra lampo, una blitzkrieg combattuta dall’alto con pochi durissimi colpi che avrebbero scioccato e intimorito l’avversario (“shock and awe”) è diventata una lunga e sanguinosa guerra di attrito, prima contro i fedeli di Saddam, poi contro gli estremisti islamici, infine contro gli “insorti” definiti tutti terroristi (se non lo erano, lo diventavano una volta morti).

Ma è soprattutto dal punto di vista politico che la guerra è stata un insuccesso clamoroso. Andandosene gli americani non lasceranno la “democrazia” che avevano promesso. Il regime iracheno non è molto diverso (forse lo è in peggio) da uno qualsiasi dei regimi del Medioriente: corrotto, autoritario, inefficiente. In più il terrorismo è lungi dall’essere debellato. Anche se il livello di violenza è diminuito, ogni settimana si contano decine di attentati grandi e piccoli, centinaia di morti. Se il governo iracheno ce la farà a rimanere in piedi (questo governo o un altro qualsiasi) sarà accentuando ancora di più il suo carattere autoritario, dando mano libera all’esercito e alla polizia, riempiendo le carceri di “terroristi” o oppositori al regime presunti tali.

Il vero vincitore di questa guerra è l’arcinemico dell’America, l’Iran sciita. Tenuto sotto controllo dal sunnita Saddam, l’Iran vede ora suoi uomini, uomini della sua stessa religione e formatisi nell’esilio iraniano, al governo del paese. Tolto di scena l’elemento di bilanciamento rappresentato da Saddam, l’Iran sciita estende sempre più la propria influenza su tutto il Medioriente: dall’Iraq, al Libano (Hezbollah), alla striscia di Gaza (Hamas), al Bahrein. E a dolersene, nella millenaria contrapposizione tra sciiti e sunniti, tra persiani e arabi, sono in primo luogo i governi arabi della regione.
Il fallimento era nell’ordine delle cose, era dettato fin dall’inizio dalla strategia militare sbagliata, dall’ignoranza culturale e dalla arroganza egemonica dei governanti di Washington. La scelta del ritiro era altrettanto obbligata e perfino l’amministrazione Bush l’aveva annunciata. Adesso, sulle rovine, occorrerà ricostruire, ripartire da zero per risolvere i drammatici problemi della sicurezza, della lotta al terrorismo e – sì – anche della democrazia, che rimangono tutti lì, irrisolti.