CRISI DELLA SINISTRA E CULTURA DELLA LAICITÀ

di Marcello Vigli

La laicità non concerne solo il contenzioso fra stato e chiesa, fra dimensione pubblica e ingerenze ecclesiastiche, costituisce la dimensione nella quale si storicizzano gli assoluti, si demistificano conformismi ideologici, si ridimensionano simboli, si destrutturano identità imbalsamate

Ci si interroga a sinistra sul come uscire dalla crisi. Articoli, libri, dibattiti, assemblee, tavole rotonde, siti, blog, messaggi nelle innumerevoli mail-list, sono le sedi più o meno prestigiose di frenetica autocoscienza collettiva degli orfani della “sinistra unita”. In lite tra loro per rivendicarne l’eredità non hanno tempo per chiedersi se esista ancora un asse ereditario della sinistra da dividersi. Il patrimonio politico culturale accumulato in oltre un secolo di lotte è stato sperperato da chi, chiamato a gestirlo, non ha saputo valorizzarlo. L’analisi di Rossana Rossanda sul Manifesto di sabato 27 giugno è tanto lucida quanto impietosa. Non lascia dubbi sulle responsabilità del declino, di cui ricostruisce sommariamente l’origine e le tappe intrecciando l’analisi del succedersi dei cambiamenti nella struttura economica mondiale e nazionale, con riferimenti all’affermarsi della secolarizzazione, all’avanzare dei femminismi, all’esplodere del Sessantotto. Sbagliate sono state le successive scelte strategiche e tattiche con cui i diversi soggetti, in cui nel tempo la sinistra si è venuta articolando, sono intervenuti per affrontare i processi di cambiamento prima e dopo il 1989.

Da queste riflessioni si può partire per individuare, fra le ragioni di tanto “declino”, elementi utili per cominciare a rifondare quel patrimonio recuperando, magari in modo nuovo, materiali avanzati. Se ci sono, come sembra, anche responsabilità personali diventa preliminare porre una domanda: perché uomini e donne di grande intelligenza politica, sostenuti da uffici studi di valore, costantemente forniti di dati aggiornati hanno fallito nelle analisi e ancor più nelle scelte operative?

Se non si vuol ricorrere al destino cinico e baro o al determinismo dei vari storicismi si può azzardare una duplice risposta.

Alcuni di loro, nel nobile intento di sfuggire alle tentazioni del nuovismo e al rischio di cedere alle lusinghe del pensiero debole, non hanno aggiornato categorie e strumenti di analisi. Hanno dimenticato che tale aggiornamento è indispensabile, se non s’intende limitarsi ad interpretazioni accademiche della realtà, ma si vuole intervenire su di essa per indirizzarne i processi. Hanno ignorato che l’operazione di individuare le dinamiche strutturali e di distinguere il reale dal virtuale è stata resa estremamente complessa, da un lato, dall’accelerazione, imposta al succedersi degli eventi dalla tecnologia, e dalla planetarizzazione, e, dall’altro, dall’aumentata capacità nella manipolazione dei dati e nel controllo della loro diffusione. Categorie, che pure hanno ben funzionato in altri momenti e in altre situazioni, non servono più se non sono aggiornate.

Altri hanno identificato le sorti della sinistra con le loro scelte di vita personali: ad alto livello,

hanno confuso la loro presenza nella stanza dei bottoni con il raggiungimento dell’obiettivo, a livello locale si sono piegati a compromessi senza neppure preoccuparsi di perseguire almeno obiettivi di “buon governo”. Il professionismo politico può non essere una colpa per chi non si proclama portatore di “progetti” politici, di ideali rivoluzionari, di velleità riformiste, lo diventa per chi ha intenti di realizzare una società di “eguali” o … almeno di “meno diseguali”. Se fallisce non può limitarsi a cambiare nome al “progetto/ partito”, deve farsi da parte tornando a far politica da cittadino, che si guadagna da vivere in altro modo.

Forse è necessario che gli uni e gli altri, che hanno sperperato un patrimonio di idee e di soggettività politiche unico in tutto l’occidente, restino fuori dalla ricerca di un progetto di cambiamento, adeguato ai tempi, e dalla costruzione di un soggetto capace di realizzarlo, l’uno non sta senza l’altro.

Resta pur sempre la necessità di affrontare il problema dei condizionamenti imposti allo sviluppo della ricerca dalla presenza in campo di fedeli di diverse ortodossie ideologiche non meno perniciose delle dogmatiche teologiche. Non si costruisce reale confronto né si realizza unità, almeno quella possibile, senza un recupero di laicità nel confronto. La laicità non concerne solo il contenzioso fra stato e chiesa, fra dimensione pubblica e ingerenze ecclesiastiche, costituisce la dimensione nella quale si storicizzano gli assoluti, si demistificano conformismi ideologici, si ridimensionano simboli, si destrutturano identità imbalsamate. La cultura della laicità impone infatti di non dimenticare che, se nell’avventura umana tutto è storia, le analisi culturali e i progetti politici non possono sottrarsi a tale destino, si deve imparare a storicizzare. Ci si salva non solo dal dogmatismo e dagli storicismi deterministici, ma anche da quel relativismo che rinuncia alla ricerca di categorie e di valori condivisi.

Al suo interno, infatti, idee, analisi e progetti sottoposti al vaglio critico assumono valore se condivisi perché funzionali alla realizzazione, qui ed ora, di libertà, uguaglianza, solidarietà al massimo livello possibile di qualità e di partecipazione. I sei miliardi di donne e uomini concreti che popolano il pianeta diventano il criterio discriminante delle priorità fondamentali al cui interno devono trovare coerente collocazione la difesa e la promozione della qualità della vita per donne e uomini dei quartieri, nella fabbriche e dei Paesi di questo Occidente che non intende rinunciare ad essere l’ombelico del mondo.