I COMPORTAMENTI DEI POLITICI E IL GIUDIZIO DELLA CHIESA

di Nadia Urbinati
da www.repubblica.it

DOPO tanto tergiversare dei laici é arrivata infine la scure della Conferenza Episcopale Italiana che per bocca del suo Segretario generale ha in un colpo solo liquidato qualche secolo di arte liberale della distinzione per dire quello che molti italiani in cuor loro pensano: che il nostro Presidente del consiglio é un immorale e il suo comportamento non può essere rubricato come affare privato. Monsignore Mariano Crociata lo ha detto dal pulpito di una chiesa, non in un luogo pubblico-civile. Il suo é un giudizio morale e così vuole essere. Ma, nelle condizioni eccezionali nelle quali versa il nostro paese, questo giudizio morale ha immancabilmente una valenza pubblica e politica.

Quando i padri fondatori del liberalismo hanno messo in chiaro la distinzione tra le sfere di vita – quella economicae politica, quella privata e pubblica, quella religiosa e civile – essi presumevano che alla base di questa distinzione ci fosse una sostanziale condivisione da parte di tutti i membri della comunità di un codice di comportamento che viveva nel senso comune senza dover essere imposto con la forza. Perché solo a questa condizione sarebbe stato possibile edificare una società di individui autonomi, dotati cioè di un senso della norma che li rendesse in grado di agire moralmente senza la presenza di un’ autorità coercitiva che li controllasse direttamente. Se per operare correttamente ci fosse sempre bisogno del gendarme, si avrebbe una società di soffocante autoritarismo nella quale nessuno sarebbe libero.

La distinzione tra pubblico e privato, quindi, non é un dualismo schizofrenico perché non contempla individui doppi come il Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Presume invece persone che sappiamo valutare le conseguenze delle loro azioni e in alcuni casi, come quelli che riguardano gli uomini pubblici, le azioni private non possono che avere molto spesso conseguenze pubbliche. È dunque obsoleta la distinzione liberale? No, non é obsoleta. Occorre però interpretarla senza semplicismi. La regola aurea della distinzione é che il potere civile (lo stato, per intenderci) debba giudicare le azioni dei suoi cittadini con il metro non del moralmente “buono” ma del legalmente “giusto”.

La legge non può punire chi invita a casa propria uno stuolo di ragazze non minorenni. Ma la legge deve e non può esimersi dal punire chi, avendone la possibilità, promette incarichi pubblici (per esempio un seggio in un parlamento o in un consiglio comunale) in cambio di favori privati – quali che essi siano, sessuali o monetari. Ora, provato che la persona pubblica in questione non sia incorsa in questa o altre azioni penalmente perseguibili, quale é il ruolo del giudizio pubblico? È ammissibile che le azioni private diventino oggetto di scrutinio pubblico? Detto altrimenti, é giustificabile l’ applicazione della regola aurea della separazione delle sfere di vita in un caso in cui é coinvolto non un cittadino ordinario, ma un rappresentante eletto (le cui azioni devono poter essere monitorate perché i cittadini abbiano la possibilità di giudicarle)?

In circostanze normali, il giudizio pubblico dovrebbe contenersi nei limiti dei comportamenti pubblici o che abbiano rilevanza pubblica. Si tratta come si può intuire di categorie molto scivolose e lasciate all’ interpretazione del buon senso; finoa quando il comportamento del politico non ha così tanto tracimato i limiti del senso comune da non poter essere ignorato, anche con la buona volontà dei liberali più ortodossi. Ad un certo punto, la quantità si fa qualità. Scriveva John Stuart Mill nel Saggio sulla libertà che se é vero che non si può con la legge interferire nelle decisioni personali di un adulto qualora non arrechino danno ad alcuno (un concetto, quello del “danno”, di per sé molto complicato e controverso), é altrettanto vero che noi possiamo decidere di non voler come amico colui le cui azioni disapproviamo.

Tradotta questa decisione morale in termini di opinione pubblica, l’ esito é questo: tutti noi possiamo decidere di non approvare e anzi di criticare pubblicamente quelle azioni che, sebbene non illecite, confliggono gravemente con le nostre concezioni morali. La critica, il giudizio pubblico, é anzi la sola arma ammissibile in una società liberale, anche se non va mai trasformata in incitamento alla violenza o alla discriminazione. L’ opinione pubblica é un potere molto efficace e per questo lo si dovrebbe usare sempre con cautela. Ma é un potere fondamentale senza il quale nessuna democrazia può essere al riparo da chi detiene il potere (e cerca di nascondere i propri misfatti).

A maggior ragione quando si tratta di giudicare le azioni di uomini politici, poiché se queste diventano, cosíccome succede oggi in Italia, un vero e proprio caso nazionale, allora é chiaro che non é in questione il giudizio morale semplicemente, ma la fiducia politica stessa. E noi sappiamo che la democrazia moderna riposta su due pilastri: la volontà che si esprime con il voto, e la fiducia che si esprime con il giudizio pubblico. Il primo pilastro é depositario dell’ autorizzazione formale a governare (legittimità istituzionale), il secondo dell’ autorizzazione informale nel tempo che intercorre tra un’ elezione e l’ altra (legittimità politica). Anche se il voto resta il dato incontrovertibile, può tuttavia succedere che nel corso del suo mandato un governo perda la fiducia dei cittadini, e il giudizio negativo espresso dagli organi di informazione e dalla società civile é un segno importante di questo declino di fiducia.

La Chiesa dunque ha le sue buone ragioni a criticare l’ operato degli uomini pubblici con argomenti morali e privati; e in questo senso di partecipare indirettamente alla costruzione del giudizio. Ma il suo linguaggio non é il solo di cui noi disponiamo e possiamo avvalerci. La politica, o se si vuole l’ etica pubblica, ha anch’ essa strumenti altrettanto severi e, nel rispetto della distinzione tra pubblico e privato, sa comprendere quando i limiti vengono travalicati e un’ azione, anzi una serie di azioni private hanno un impatto che é decisamente pubblico. Del resto, qui é in questione l’ immagine intera del paese perché un popolo si porta addosso l’ immagine che di esso dà il suo rappresentante politico. A questo punto le azioni immorali del nostro leader hanno effetti politici diretti, non solo effetti morali. L’ immoralità di chi ci governa costituisce un gravissimo danno all’ immagine di ciascuno di noi; é da questo punto di vista che occorrerebbe criticarla, ovvero per il danno politico che arreca.