L’arte di ridicolizzare

di Letizia Tomassone
in “Riforma” n. 27 del 10 luglio 2009

È possibile ridicolizzare qualunque percorso con un articolo di giornale, basta metterci un po’ di termini storpiati e offensivi, come «pretessa». È così che un percorso importante compiuto dalla chiesa evangelica della Svezia, di inclusione e rispetto delle scelte di persone dai diversi orientamenti sessuali, viene messo alla berlina dal giornale La Repubblica (A. Ginori, «Eva, la vescova lesbica che fa scandalo in Svezia», 1° luglio).

Succede che la Chiesa luterana svedese nomini vescova con un largo consenso una pastora che vive con la sua compagna in un’unione civile, su cui è stata invocata la benedizione durante una cerimonia in chiesa. Le chiese luterane dei paesi scandinavi, come quelle di diversi Land tedeschi, vivono felicemente e tranquillamente le benedizioni di unioni civili tra credenti dello stesso sesso, e fra questi vi sono a volte anche pastori e pastore.

Ma in Italia l’informazione giornalistica non riesce a sollevarsi dallo scandalismo, né a render conto di un cammino faticoso di conquista di uguali diritti e doveri che sono insiti nell’uscire dal nascondimento e nella promessa solenne di un legame d’amore. Così l’articolo imperversa con «vescovati rosa», ammicca al corpo femminile che si nasconderebbe sotto la «tonaca bianca», vede il bambino «giocare in sagrestia» mentre la vescova «dice messa».

Immagini che possono, in Italia, solo evocare un ambiente cattolico per provocare maggiore indignazione. Ma ora vi chiedo: quanti nostri bambini e bambine giocano e hanno giocato in chiesa mentre le mamme (o i papà) guidavano il culto? È questa una scena che, lungi dal costituire scandalo, dice la mescolanza fra la vita concreta e il nostro rapporto con Dio, un rapporto che non espelle ciò che noi siamo da un presunto spazio sacro, neppure le nostre scelte sessuali.

Nell’articolo torna poi un luogo comune attribuito a Lutero: «Martin Lutero dice che chiunque può prendere una posizione sulla fede e sulla Bibbia». Quel «chiunque» dispregiativo mostra l’incapacità di sentire che i credenti hanno tutti e tutte la stessa dignità di fronte a Dio, e che la vita concreta di tutti e tutte interroga la Bibbia senza che qualcuno possa farsene unico portavoce egarante. La dimensione comunitaria della decisione in questioni così importanti come la nomina di un vescovo o di una vescova viene evocata nell’articolo succitato solo verso la fine.

Se c’è stato dibattito, nella chiesa di Svezia, non è stato intorno al lesbo-pride della vescova Brunne, ma intorno ai suoi doni e competenze. Inoltre l’articolo stesso da’ conto di una difficoltà della chiesa a mettere in posizione episcopale delle donne (esiste anche in Svezia il «soffitto di vetro» che tiene le donne, lesbiche o eterosessuali che siano, in posizioni inferiori e meno retribuite).

Noi non possiamo che rallegrarci perché anche la chiesa di Svezia lascia spazio ai doni che lo Spirito santo distribuisce come vuole, e perché è capace di non nascondere le persone e i loro percorsi di vita. E nello stesso tempo restiamo amareggiati perché in Italia non si può uscire dal solo modello conosciuto di cristianesimo, quello cattolico, che neppure accetta di ascoltare la ricchezza di percorsi che esiste nel mondo protestante sul superamento dell’omofobia. È una sconfitta dell’ecumenismo, ma è anche una sconfitta dell’informazione laica, che si uniforma ai nuovi codici di «puro» e «impuro» dettati dal magistero cattolico.