Italia, il vizio della memoria

di Chiara Pracchi
da www.peacereporter.net

Alzi la mano chi si ricorda di Renata Fonte. Renata era un assessore del comune di Nardò, in provincia di Foggia. Si è battuta contro la lottizzazione e la speculazione edilizia all’interno del Parco naturale di Porto Selvaggio e questo le è costato la vita. E’ stata assassinata il 31 marzo del 1984, all’età di 33 anni e con due figlie piccole, da un gruppo di sicari che l’aspettavano all’uscita del Consiglio comunale. Dai microfoni di Radio Nardò1, Renata parlava di giustizia e di legalità.

Forse qualcuno può ricordarsi di Bruno Caccia. Magari i colleghi in tribunale, o qualcuno particolarmente attento alla nostra storia criminale. Bruno era un procuratore della Repubblica di Torino, “uno con cui non si poteva parlare” come dicevano gli uomini delle cosche. Era uscito a portar fuori il cane da solo, senza la scorta, quella sera del 26 giugno 1983, quando gli uomini di Domenico Belfiore, capo della ‘ndrangheta piemontese, gli si affiancarono per scaricargli contro 14 colpi di pistola. Nella sentenza d’appello, i giudici della Corte d’assise di Milano, non solo posero fine all’opera di depistaggio che aveva attribuito l’omicidio prima alle Brigate rosse e poi ai Nar, ma accusarono anche gli altri magistrati della procura di Torino di favoreggiamento e collusione. Caccia “poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici – si legge nella sentenza finale – Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza, la disponibilità o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati”.

Rocco Gatto, invece, era un semplice mugnaio, di Gioiosa Ionica, che ha scelto di non sottostare alle regole imposte dal clan. Nel 1977 Gioiosa era un luogo di scontro: da una parte le cosche, con tutto il loro potere intimidatorio, dall’altro personaggi come Francesco Modafferi, battagliero sindaco del Pci, che portò, per la prima volta nella storia d’Italia, il Comune a costituirsi parte civile in un processo.
Il 6 Novembre del 1976 il capocosca Vincenzo Ursini venne ucciso in un scontro a fuco con i carabinieri. In segno di potere e di lutto la famiglia bloccò il mercato domenicale, chiuse tutte le vie di accesso al Paese e impose il coprifuoco. Rocco non ci stette e fece i nomi, prima davanti al capitano dei carabinieri Gennaro Niglio e poi davanti al giudice. Poche settimane dopo venne ucciso mentre consegnava i sacchi della farina. Due, tre colpi di lupara in successione.
Da questa esperienza è nata una lunga storia di battaglie civili, raffigurata nel murale che ancora oggi campeggia nella piazza del mercato, grazie al restauro appena terminato.

Per non dimenticare, o meglio, come dicono loro “per ricostruire una memoria condivisa e non riconciliata” l’associazione “daSud”, insieme con “Libera Locride” e “Movimenti” hanno lanciato una singolare iniziativa: “La lunga marcia della memoria”. Dal 14 al 25 luglio organizzazioni, gruppi, artisti e semplici cittadini sono chiamati a ribattezzare le vie e le piazze delle città con il nome di una vittima della criminalità organizzata. Il sito offre “la grafica”, un cartello che ricalca le insegne delle vie da compilare e scaricare, e la “memoria”, una serie di schede che ripercorrono la storia delle vittime e di questo Paese. Altro materiale è conservato sull’archivio web Stopndrangheta.it che, tra le altre cose, ha vinto il bando “Giovani idee cambiano l’Italia”. In cambio “daSud” chiede ai partecipanti di fotografarsi nel momento in cui rinominano la città. Tutte le foto verranno pubblicate sul sito e andranno a comporre una “Lunga mappa” dell’antimafia.
Memorie estorte, come dicono quelli dell’associazione, per ritrovare la nostra identità e per resistere al presente. E non solo per il Sud.