Obama, Netanyahu e i San Marini

di David Gabrielli
da www.confronti.net

Storico è il discorso con cui Barack Obama al Cairo (4 giugno) ha chiuso l’era disastrosa di Bush in rapporto all’islam. Per risolvere il conflitto israelo-palestinese, il capo della Casa bianca ha sostenuto la necessità di creare, accanto ad Israele, uno Stato di Palestina. Le condizioni perché ciò possa avvenire. Il sì di Abu Mazen (al-Fatah), i distinguo di Hamas, il sì capzioso di Netanyahu, che in realtà immagina un mosaico di San Marini, e senza Gerusalemme, piuttosto che un vero Stato palestinese.

Il discorso che Barack Obama ha tenuto il 4 giugno al Cairo è senz’altro storico: esso segna, infatti, una discontinuità evidentissima con la visione dei rapporti tra Stati Uniti e mondo musulmano che aveva caratterizzato la disastrosa presidenza di George W. Bush. Le sue parole complessive – si potrebbe infatti discutere sulle singole dette o non dette – danno consolazione e aprono il cuore alla speranza. Guai ad illudersi, però: nodi geopolitici intricatissimi non si sciolgono dall’oggi al domani; la strada è ancora lunga, insidiosa ed aspra.

Ciò premesso, soffermiamoci su uno dei temi toccati da Obama: il conflitto israelo-palestinese, segnalando poi le reazioni suscitate. In breve, ecco il pensiero obamiano:

1) tra Stati Uniti d’America e Israele vi è un «vincolo infrangibile» e «l’aspirazione a una patria ebraica è legittima; ha anch’essa radici in una storia tragica, che non può essere negata. Minacciare Israele di distruzione – o ripetere vili stereotipi sugli ebrei – è profondamente sbagliato, ed ostacola la pace»;

2) «È innegabile che i palestinesi – musulmani e cristiani – hanno sofferto anch’essi nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre sessant’anni sopportano il dolore di essere dispersi… Sopportano le quotidiane umiliazioni – piccole e grandi – che un’occupazione comporta. Non è lecito pertanto avere dubbi: la situazione per il popolo palestinese è intollerabile»;

3) «L’unica soluzione per le aspirazioni di entrambe le parti è accordarsi per due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza. Questa soluzione è nell’interesse di Israele, della Palestina, dell’America e del mondo intero»;

4) «La resistenza [palestinese] attraverso la violenza e l’uccidere è sbagliata e non ottiene successo… L’Autorità palestinese deve sviluppare la sua capacità di governare, con istituzioni che siano al servizio della sua gente. Hamas ha sèguito tra alcuni palestinesi, ma ha anche responsabilità: deve porre fine alla violenza, riconoscere gli accordi passati e riconoscere il diritto di Israele ad esistere»;

5) «Gli israeliani devono riconoscere che, proprio come il diritto di Israele a esistere non può essere negato, neppure può esserlo quello della Palestina. Gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei continui insediamenti israeliani. Queste costruzioni violano i precedenti accordi [la «Road map», il progetto di pace varato nel 2002 da Onu, Usa, Russia e Ue] e minano gli sforzi per ottenere la pace. È ora che questi insediamenti si fermino. L’incessante crisi umanitaria a Gaza non serve alla sicurezza di Israele»;

6) «Gli Stati arabi devono riconoscere che l’Arab Peace Initiative è stato un importante inizio, ma non la fine delle loro responsabilità» [l’Iniziativa, lanciata dalla Lega araba nel 2002, e ribadita nel 2007, prevede da parte sua il riconoscimento di Israele, a patto che esso si ritiri entro i confini del 1967, Gerusalemme-Est divenga capitale dello Stato di Palestina, e sia trovata un’equa soluzione per i profughi];

7) «Troppe lacrime sono state versate. Troppo sangue è stato sparso. Tutti noi abbiamo la responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri degli israeliani e dei palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa di tre grandi fedi [ebraismo, cristianesimo, islam] sarà quel luogo di pace che Dio intendeva fosse».

Il presidente palestinese Abu Mazen, di al-Fatah, che di fatto governa solo la Cisgiordania, ha lodato il discorso di Obama, rimarcando come oggi il principale ostacolo alla pace sia il continuo ampliamento degli insediamenti israeliani; la leadership di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha espresso un giudizio cauto: ha notato alcune «differenze» tra Obama e Bush, ma anche ribadito che la questione del riconoscimento di Israele – che da 42 anni occupa Gerusalemme-Est e la Cisgiordania, e che, pur dopo gli orrori dell’operazione «piombo fuso», centellina l’entrata di aiuti umanitari a Gaza – non può essere la pre-condizione ma solo la conclusione delle sperate trattative. Da parte sua il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha accettato l’idea di uno Stato palestinese, purché smilitarizzato e senza sovranità sul suo spazio aereo. Ha però respinto ogni ipotesi di sovranità palestinese su Gerusalemme-Est, e ogni blocco sull’«aumento naturale» degli insediamenti; richiesto ad Hamas il riconoscimento di Israele, previo alle trattative e, a tutti i palestinesi, l’accettazione d’Israele come Stato del popolo ebraico.

Dei molti temi sottesi alle parole di Obama, variamente commentati, focalizziamo il concetto di «Stato palestinese», il cui identikit è il cuore del problema. Intanto, quali saranno i suoi confini? Obama ha taciuto, come ha taciuto sulle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu; i palestinesi intendono la Striscia più la Cisgiordania entro i confini del ’67 (la differenza tra al-Fatah e Hamas è che il primo appare propenso a «scambi territoriali» con Israele che il secondo respinge). E Netanyahu? Se la sua accettazione di uno Stato palestinese, pur a sovranità limitata, è un progresso in confronto al suo precedente diniego, in realtà la faticosa ammissione – che gran parte dei coloni gli contesta – potrebbe essere un guscio vuoto. Infatti, lo Stato palestinese che il premier ha in mente assomiglia molto ad un gran San Marino o, più sottilmente, ad un insieme di San Marini: pezzi di territorio cisgiordano amputato e spezzettato, inframmezzato da insediamenti: insomma, «isole» incapsulate in territorio israeliano, e con Israele che avrà la parola decisiva su tutti i problemi-chiave. Inoltre, dire Israele «Stato del popolo ebraico», che significa per l’1,2 milioni di arabi che vivono in esso: essere di serie B? Oppure l’obbligo di «emigrare» in massa nella futura Palestina?

Dunque, con i suoi «sì» condizionati, con i silenzi calcolati e con i «no» espliciti, Netanyahu (anche se il capo del governo italiano, ricevendolo il 23 giugno, è sembrato non saperlo) ha provato a silurare – per ora – la pace prospettata da Obama. Naturalmente, la partita è tutta da giocare, ed in teoria è possibile che la Superpotenza imponga un diktat al premier. Ma tale ipotesi è remota, e politicamente di ardua attuazione, anche per i suoi risvolti negli States; inoltre, è legata all’evoluzione della crisi iraniana. Se a Teheran rimarrà in sella Ahmadinejad, il potere di moral suasion di Obama sul governo di Israele si ridurrà drasticamente. E, dunque, sarà rinviata sine die la soluzione del conflitto israelo-palestinese e la nascita, accanto ad Israele, di un vero e vivibile Stato palestinese. Nel frattempo, a Gerusalemme e dintorni, continueranno paure, sofferenze e drammi terribili. Il discorso di Obama al Cairo andrà in fumo, come accadde un tempo alla biblioteca d’Alessandria?