La mafia e un’idea dello Stato che non esiste

di Domenico Moro
da www.aprileonline.info

Più che parlare di “antistato” e di servizi “deviati” in rapporto con Cosa nostra, ci si dovrebbe porre la questione di che cosa è lo Stato oggi, e, conseguentemente, di come operare per una sua effettiva democratizzazione che non può che passare per l’influenza delle classi subalterne sulla sua struttura e sulla direzione che assume

Negli ultimi giorni le dichiarazioni di Riina e quelle del figlio di Vito Ciancimino sul periodo delle stragi, durante il quale perirono i giudici Falcone e Borsellino, hanno riaperto l’antica e dibattuta questione dei rapporti tra mafia e Stato. C’era o non c’era nel 1992 una trattativa in corso tra Stato e mafia, le cui richieste sarebbero contenute nel “papello” di cui dice di essere in possesso il giovane Ciancimino? E Borsellino è stato ucciso perché si opponeva a tale accordo? Tali questioni dovranno essere chiarite, si spera, in sede giudiziaria, dai magistrati che hanno aperto l’inchiesta sull’assassinio di Borsellino, e poi approfondite in sede storica. Ad ogni modo, anche questa volta, come sempre, nella cronaca si torna ad abusare di espressioni come “servizi segreti più o meno occulti o magari border line tra Stato e antistato” o come “servizi segreti più o meno deviati” che avrebbero fatto da tramite tra mafia e soggetti istituzionali (il Sole24ore del 21 luglio). Si tratta di definizioni fuorvianti. Infatti i termini di servizi “deviati” o “border line” e di “antistato” presuppongono una idea dello Stato che non corrisponde alla realtà storica e sociologica. Lo Stato è tutt’altro che un organismo unitario. È, viceversa, un organismo caratterizzato dalla lotta tra gruppi in competizione tra di loro per il potere.

L’equilibrio tra le forze in lotta, che a volte risulta da queste lotte, è sempre instabile. Esiste, però, una unitarietà dello Stato che non è mai venuta a mancare neanche nel Mezzogiorno d’Italia, dall’Unità ad oggi. Quale? Quella nei confronti delle classi subalterne. Lo Stato, secondo il sociologo Max Weber, è caratterizzato dall’esercizio del monopolio della forza, o, detto in modo più esplicito, della violenza in un dato territorio. Bisogna, però, precisare che questo monopolio risponde agli interessi di chi detiene il potere economico ed è diretto verso le classi subalterne. Difatti, la violenza in Sicilia è stata esercitata sempre contro le classi dominate, contadini, braccianti e operai, con l’ausilio determinante della mafia ed il consenso più o meno tacito dello Stato “ufficiale”, in tutti i momenti della storia italiana e isolana in cui era in atto un risveglio popolare, dalla repressione dei Fasci siciliani nel 1891, a Portella della Ginestra, fino ad oggi. Non pochi, a destra ma non solo, sono convinti che Mussolini abbia combattuto e sconfitto la mafia.

La verità è che il prefetto Mori, mandato nell’isola dal dittatore con pieni poteri, ebbe campo libero nell’eliminazione delle bande dei briganti (criminalità popolare e bassa manovalanza della mafia), ma quando fece per volgersi contro i grandi proprietari, che della mafia erano il nucleo direttivo, fu nominato senatore e richiamato a Roma. Nell’Italia repubblicana la mafia ha trovato forse il suo migliore terreno di sviluppo. I processi di costruzione del consenso, tipici di una democrazia rappresentativa, si basano in primo luogo sul controllo del territorio, che è essenzialmente controllo economico, e, visto che la mafia ha il controllo dell’economia, ha anche quello del territorio. Il sociologo Arlacchi già da molto tempo ha parlato di “mafia imprenditrice” e lo stesso Borsellino fu molto chiaro sui legami, chiaramente di classe, tra capitali di provenienza criminale e finanza del Nord. La faccia esplicitamente militare della mafia è subalterna e funzionale a quella imprenditoriale, decisiva e alla fine anche più pericolosa. A seguito della caduta del muro di Berlino, l’Italia ha vissuto, all’inizio degli anni 90, un processo di trasformazione che, spazzando via partiti e politici chiave in decenni di storia patria, metteva in discussione vecchi equilibri di potere e, nello specifico, privava di referenti politici la mafia. Il periodo delle stragi va inquadrato in quel contesto.

Oggi, nel 2009, la lunga transizione dalla prima alla seconda Repubblica non è ancora terminata, soprattutto per la presenza ingombrante di Berlusconi, che non a caso, proprio in Sicilia, fa il pienone di voti e ora con lo scudo fiscale permette il rientro di capitali di incerta origine, detenuti nei paradisi fiscali. Nella lunga transizione verso la seconda Repubblica i rapporti tra istituzioni e classi subalterne sono stati quasi del tutto “regolarizzati”, essendo l’influenza sulla gestione dello Stato da parte di queste ormai ridotta al lumicino. Tra i gruppi dominanti, al contrario, la lotta è ancora accesa e si accentua per le spinte centrifughe della globalizzazione (che internazionalizza il capitale mafioso) e per la crisi, che rendono più difficile la composizione di un blocco sociale dominante.

Più che parlare di “antistato” e di servizi “deviati”, ci si dovrebbe porre la questione di che cosa è lo Stato oggi, e, conseguentemente, di come operare per una sua effettiva democratizzazione, in Sicilia come nel resto d’Italia, che non può che passare per l’influenza delle classi subalterne sulla sua struttura e sulla direzione che assume. Il fronte giudiziario della lotta alla mafia è fondamentale, ma è solo impedendo l’accumulazione e la libera circolazione del capitale mafioso, attraverso politiche pubbliche centrali, che quella lotta diventa efficace.