AFGHANISTAN E IRAQ: GLI EFFETTI DEL NUOVO MODELLO DI GUERRA OCCIDENTALE

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

In Afghanistan e in Iraq ci sono i nostri, il nemico e gli altri, quelli che dal nuovo modello di guerra occidentale hanno subito un danno incalcolabile, un effetto “collaterale” di cui non si ha più l’esatta portata, né in termini di vite umane né in numero di profughi. Persone costrette ad abbandonare le loro case, i loro cari, la loro vita, cifre approssimative che diventano terreno di discussione tra i detrattori e gli estimatori delle scelte americane d’inizio secolo, calcolati su notizie frammentarie diffuse attraverso i comunicati degli ospedali e delle organizzazioni umanitarie o da fonti di agenzie di stampa che rimbalzano da un giornale all’altro. Cifre impressionanti che vengono offuscate dalle statistiche della coalizione, che con attenzione certosina aggiornano in tempo reale i database relativi alla perdite subite dagli alleati.

Secondo Martin Shaw, professore di politica e relazioni internazionali all’Università del Sussex, le responsabilità di questa nuova politica, di questo nuovo modo di interpretare la guerra, sono gravissime; responsabilità che possono essere accertate solo attraverso un’analisi approfondita dei fatti, elemento fondamentale per un futuro giudizio politico e morale: quasi seimila soldati caduti in combattimento, 1271 in Afghanistan e 4646 in Iraq; tra gli 11 e i 30 mila civili afgani morti a causa delle operazioni militari e delle azioni terroristiche; più di 100 mila civili uccisi nel conflitto iracheno, 600 mila secondo uno studio della Johns Hopkins University che però si riferisce al solo periodo 2003-2007.

Indipendentemente dal contesto a cui ci si riferisce, in qualsiasi guerra, massacro o pulizia etnica, il numero delle vittime inizialmente stimato tende spesso ad essere superiore a quello reale. Se anche così non fosse, resta comunque il fatto che anche nella più ottimistica delle ipotesi, dal 2001 ad oggi, in Afghanistan e in Iraq si può sicuramente parlare di 120 mila civili morti e di un numero impressionante di feriti; un impatto umano incalcolabile che fa capire il potenziale di un conflitto che in alcune zone si potrebbe addirittura trasformato in scontro etnico.

Il rischio è infatti che almeno in Iraq il complesso scontro tra sciiti e sunniti si potrebbe allargare alla minoranza curda e questo darebbe luogo ad un aumento vertiginoso delle vittime e dei profughi. Le persone costrette ad abbandonare la propria casa sono infatti il secondo e più urgente problema di questa questione mediorientale: otto milioni secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHRC); 4,6 milioni in Iraq; 3,5 milioni in Afghanistan.

In realtà, in questo secondo caso il numero di rifugiati causato dal conflitto è prossimo alle 230 mila unità, un numero sicuramente inferiore ai 3 milioni di civili fuggiti dalle barbarie e dall’intollerante di un regime primitivo e violento come quelli dei Taleban. Un dato in netto contrasto con quanto avvenuto in Iraq dove, al contrario, dei 4,6 milioni di profughi “solo” un milione sarebbe antecedente al 2003, e quindi dovuto alla repressione messa in atto dal regime di Saddam Hussein; il resto sarebbe stato causato dall’azione bellica della coalizione e dal sanguinario scontro tra sciiti e sunniti. Fallimentare anche la politica del “ritorno”: in totale gli iracheni rientrati nelle loro abitazioni sarebbero circa 200 mila; 1,9 milioni quelli rimasti all’estero; 2,7 milioni quelli ancora accolti nei campi profughi organizzati all’interno dei confini iracheni.

In questi ultimi mesi, in Afghanistan, al drammatico aumento delle vittime civili corrisponde un altrettanto preoccupante aumento delle perdite Isaf. Questa vertiginosa escalation sarebbe la risposta talebana all’incremento di truppe deciso dall’amministrazione Usa e alle elezioni del 20 agosto. A differenza degli altri anni, le milizie applicherebbero una strategia simile a quella usata dai Vietcong negli anni Sessanta: i talebani attirerebbero infatti le truppe internazionali in zone dove il rischio di vittime civili è alto e, più che in passato, farebbero largo uso di attività di guerriglia, con attacchi suicidi, autobomba, ordigni fatti esplodere lungo il ciglio delle strade ed omicidi mirati.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, nei primi sei mesi dell’anno sarebbero almeno 1.013 i civili morti in Afghanistan; il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2008, quando a perdere la vita erano stati 818 afgani, e quasi il 55% in più rispetto ai 684 morti del 2007. Al 30,5% di vittime che sarebbe addebitabili alle operazioni delle forze afgane e ai raid aerei dell’Isaf, fa da contraltare il 59% causato dalle azioni portate a termine dalle milizie talebane. Percentuali comunque in controtendenza rispetto allo scorso anno quando le forze che appoggiano il governo erano state ritenute responsabili del 41% dei morti, mentre ai gruppi anti-governativi era stato assegnato un altrettanto preoccupante 46%.

Oltre che sui civili, l’azione talebana colpisce in modo significativo anche sulle truppe Isaf. Nel caso dei soldati britannici si è addirittura registrato un numero totale di morti superiore a quello del conflitto iracheno: 191 contro 179 (dato rilevato alle 24:00 del 1 agosto 2009), con più di 150 feriti gravi nei soli ultimi dieci giorni di luglio e 19 soldati uccisi nelle prime tre settimane dello stesso mese. Vittime che si vanno ad aggiungere ai 763 militari americani morti in otto anni di conflitto, ai 125 canadesi, 33 tedeschi, 29 francesi, 25 spagnoli, 24 danesi, 19 olandesi, 15 italiani e ad altri 58 soldati di 14 diverse nazioni, per un totale di 1282 morti.

In Iraq il fallimento politico e militare della coalizione è altrettanto evidente, lo dimostra la sequela di attentati che, ad un mese dal ritiro delle truppe statunitensi dai centri urbani, sta straziando il Paese: luoghi di culto sciiti e cristiani; stazioni di polizia; sedi di partito; edifici pubblici. Fatti che ci riportano al 22 febbraio 2006, quando i sunniti fecero esplodere il mausoleo sciita di Samara, e che ci fanno capire come l’obiettivo sia ancora una volta quello di riportare il scontro sui binari dell’appartenenza settaria o religiosa, uno scontro che coinvolge anche fattori esterni e che prepara il Paese alle elezioni del prossimo gennaio.

Un fallimento che pesa anche sul sacrificio dei militari che in Iraq hanno perso la vita: 4646 in totale, 4328 americani, 179 britannici, 33 italiani, 23 polacchi, 18 ucraini, 13 bulgari, 11 spagnoli ed altri 41 soldati di 16 diverse nazioni. Numeri destinati a crescere, soprattutto grazie alla cecità politica di chi pensava di poter trattare il Medio Oriente come un affare interno, un problema di semplice e rapida soluzione, e che invece si è ritrovato a dover affrontare una situazione per la quale la soluzione militare è sicuramente la più cara.