Essere partner euroafricani: nuova frontiera o neocolonialismo?

di Marco Belegni
da www.clarissa.it

“Prima lascia che ti spari, così poi posso portarti all’ospedale. E mi ripaghi anche la benzina e il disturbo.”

I governi di Angola, Namibia e Sudafrica hanno reso noto che non firmeranno nessun Accordo di Partenariato Economico (Epa) provvisorio con l’Unione Europea, a seguito del fallimento delle trattative su alcuni punti ritenuti fondamentali dai tre paesi per la salvaguardia delle loro economie nazionali:sostegno all’agricoltura, procedure per la cooperazione internazionale, passaggi intermedi per l’attuazione dell’Epa e impossibilità per i paesi firmatari di stringere ulteriori accordi commerciali con paesi terzi. Anche la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), che sta ancora trattando, sembra scettica riguardo la possibilità di accordo con gli europei entro novembre.

Ma che cosa sono gli Epa?

Occorre fare un po’ di storia. Nel 1975, a Lomé (Togo), l’allora Cee firmò con le ex colonie europee in Africa, Caraibi e nel Pacifico (Paesi ACP) un accordo di cooperazione e sviluppo commerciale che mirava ad integrare le economie degli stati aderenti con il fine ultimo di creare un grande mercato unico. A questo accordo fece seguito il trattato di Cotonou (Benin), firmato nel 2000 e ancora attivo, che ambisce alla riduzione ed eventuale sradicamento della povertà, contribuendo ad uno sviluppo sostenibile e ad una graduale integrazione degli stati ACP nell’economia globale.

Obbiettivi dichiaratamente ambiziosi, da raggiungere attraverso gli Accordi di Partenariato Economico che ogni stato ACP deve contrarre con l’Ue basandosi su tre principi fondamentali: reciprocità (abbattimento delle barriere doganali e conseguente apertura dei mercati da parte di entrambi i contraenti), regionalismo (incoraggiamento ai paesi ACP di aderire agli Epa in gruppi regionali e non singolarmente) e trattamento speciale per i cosiddetti Paesi del Quarto Mondo (39 su 77 paesi ACP), invitati a non accettare gli Epa e continuare le proprie relazioni economiche con l’UE attraverso la cosiddetta regolazione EBA (Everything but arms).

Gli Epa avrebbero dovuto entrare in vigore dal 2008, in realtà le trattative si sono ben presto arenate sul loro significato intrinseco e sulle capacità di questi accordi di migliorare le economie dei paesi contraenti. Sia i governi, sia le ONG che la società civile appaiono molto scettiche: secondo Percy Mokoenda, della “Rete per la giustizia economica” gli accordi getteranno i paesi contraenti in una situazione di grande povertà, pregiudicando la vita di chi abita e impedendo ai paesi africani di raggiungere gli Obbiettivi del Millennio.

Il problema principale degli accordi sarebbe la liberalizzazione dei mercati africani alle merci europee, una politica che ricorda i giorni peggiori dell’ultraliberismo del FMI negli anni Ottanta e Novanta che portò alla distruzione delle fragili economie industriali dei paesi africani, impreparati a competere con i colossi occidentali e asiatici e privi di una legislazione di protezione sulle proprie produzioni, che causò una disoccupazione dilagante, con conseguente diminuzione di servizi e aumento della criminalità.

Scettico anche l’economista namibiano Wallie Roux che parla di “effetti negativi sui processi di integrazione regionale, perché spingerebbero i produttori africani ad una concorrenza squilibrata a vantaggio dei produttori europei” causando un crollo nel volume di scambio regionale.

Sulla stessa linea il Ministro del Commercio del Sudafrica che ricorda come sia necessario costruire un’area di libero scambio a livello regionale, “prima di firmare un qualsiasi accordo con paesi lontani”. Illuminante, e ampiamente condivisibile, la tesi del movimento “L’Africa non è in vendita” nato in seguito agli studi sugli Epa e di cui fanno parte anche alcune ONG italiane: “L’Africa non ha bisogno di più commercio internazionale e nemmeno di più aiuti, se la condizione è l’apertura dei propri mercati. Ha bisogno semplicemente di regole economiche più giuste che gli Epa non le garantiranno. È necessario un maggior coinvolgimento della società civile e delle organizzazioni contadine dei paesi ACP nei negoziati, allo scopo di ricondurli finalmente alla loro originaria dimensione di sviluppo”. Quasi un manifesto!

Ci sono poi da valutare alcune considerazioni prettamente fiscali: nel 2002 il 97% delle merci entrate in Europa dai paesi ACP era già esente da dazi, per cui gli Epa sembrano essere vantaggiosi soltanto per l’UE.

Sempre Mokoenda ricorda come “gli Epa sono un modo per far rientrare dalla finestra questioni respinte ai negoziati del ciclo di Doha del WTO”.
E ancora:”E’ più chiaro che mai che gli Epa sono lo strumento usato dall’Europa per congelare le relazioni tra Africa ed Europa: visti dall’Africa, non sono altro che ricolonizzazione”.

Uno studio del Commonwealth britannico può chiarire alcuni punti circa le preoccupazioni africane: l’apertura dei mercati farebbe perdere ai paesi contraenti circa 9,2 miliardi di dollari in gettito fiscale. Solo la Nigeria perderebbe, a causa di questo sgravio fiscale 427 milioni di euro. Il Ghana 193 milioni, il Cameroon (che ha già firmato un Epa provvisorio) 149 milioni.

I paesi ACP hanno chiesto più volte di risolvere questo problema dei costi di attuazione degli Epa attraverso uno stanziamento di fondi da parte dell’UE. Ma da questo orecchio gli europei non vogliono sentire. Usando le parole di Francesco Affinito, responsabile nel 2007 dello sviluppo per l’area del Pacifico presso l’Unione Europea, bisogna prima “sottoscrivere un trattato, al fine di ottenere i soldi necessari ad arginare i danni derivati da quello stesso negoziato”.

Prima lascia che ti spari, così poi posso portarti all’ospedale.E mi ripaghi anche la benzina e il disturbo.