LAICITÀ E PARTITO DEMOCRATICO

di Marcello Vigli, Gruppo Controinformazione Ecclesiale – Roma

Laicità è una delle parole ricorrenti nel dibattito interno al PD alla vigilia della “Convenzione” nazionale. La cita Marino per smarcarsi dai teodem, la usa Bersani per recuperare un filone della tradizione comunista che non gli impedisce di sollecitare l’invito al meeting di Comunione e Liberazione, la declina Franceschini in chiave di “vera” laicità per non restare fuori gioco, la impugna come clava Grillo per fare un po’ di scena. Non è però certo che si tratti della stessa laicità, che abbia per tutti lo stesso significato. Maggiore chiarezza forse potrebbe derivare al dibattito se si cimentassero con la parola clericalismo. Desueta nelle dispute politiche italiane per il timore d’incorrere nell’accusa di “vetero anticlericalismo” servirebbe bene, invece, a districarsi fra le secche nella quale si è impantanata la ricerca dell’identità del Pd sulla questione della laicità. Il clericalismo è una componente essenziale della crisi che il nostro sistema democratico sta attraversando.

Non si può infatti intendere il valore del berlusconismo nostrano e prevedere il suo futuro, se non se ne integrano le analisi con quelle degli orientamenti che si stanno sviluppando nelle alte sfere delle gerarchie cattoliche e di quei movimenti che, all’interno della comunità ecclesiale, ormai hanno raggiunto una propria autonomia di azione politica in quanto ormai loro parte integrante. Non è certo facile orientarsi fra le diverse posizioni che si articolano nell’establishement ecclesiastico pur se le ultime vicende personali del cavaliere hanno evidenziato diversità già note. Si distribuiscono fra la redazione di Famiglia cristiana e quella dell’Avvenire, fra i seguaci del cardinale Bertone e i fedeli di Ruini ancora influente, fra l’Opus Dei e i gesuiti, fra Comunione Liberazione e l’associazionismo tradizionale.

È certo diminuita la capacità dei pronunciamenti ecclesiastici d’influenzare il comportamento elettorale, ma non quella derivante dal radicamento sul territorio delle diverse strutture della Comunità ecclesiale: dall’intreccio delle iniziative imprenditoriali della Compagnia delle opere, braccio economico di Comunione e Liberazione, con il tessuto economico del Paese, alla presenza delle organizzazioni del volontariato cattolico integrate nel sistema assistenziale pubblico. Neppure gli altri settori dell’associazionismo cattolico rappresentano più una riserva di voti in libera uscita perché dipendenti dai contributi di chi gestisce i fondi dell’otto per mille.

Forse per rendere chiaro il loro discorso sulla laicità gli aspiranti segretari del Pd dovrebbero entrare nel merito di questi problemi, dichiarandosi pronti a denunciare con forza il valore di vulnus del sistema democratico rappresentato dalla presenza di questo potere, non certo occulto ma certo anomalo: perché incontrollato e garantito da Accordi internazionali.

Non bastano le dichiarazioni di Ignazio Marino sui temi etici in difformità con la linea tradizionale dell’episcopato italiano, né la designazione di Peppino Englaro alla segreteria regionale del Pd lombardo, né il timido tentativo di Franceschini di “aprire”alle coppie di fatto, né le numerose assenze alla prolusione che il cardinale segretario di Stato ha tenuto in Parlamento per presentare l’ultima enciclica papale, Carità nella verità.

Servono gesti inequivocabilmente simbolici. Si può, ad esempio, avviare una dura battaglia politico-sindacale per chiedere la reintegrazione del vaticanista di Rai tre cacciato per avere osato ridurre a “quattro gatti” i fedeli disposti ad ascoltare le parole di papa Ratzinger. Più efficace sarebbe una chiara iniziativa culturale e parlamentare contro gli interventi rabbiosi della Santa Sede e della Conferenza episcopale italiana per sollecitare il governo ad introdurre norme restrittive all’uso della Ru486 e per incitare i medici, cattolici e non, all’obiezione di coscienza.

Non sarebbe solo il segno di aver inteso il significato della laicità, ma anche una presa d’atto del crescente deperimento dell’autorità delle gerarchie all’interno della Comunità ecclesiale, che pensano di dover ricorrere alla minaccia di scomunica, ovviamente valida solo per i cattolici, contro le donne, che usassero il nuovo farmaco, e i medici, che lo prescrivessero, perché sanno di non poter contare sulla loro spontanea obbedienza.