LA DECRESCITA: UN’IDEA SU CUI PUNTARE

di Giuseppe Giaccio
da www.opifice.it

Chi si pone, come nel nostro caso, in una posizione di critica radicale (nel senso letterale dell’andare alle radici) al mondo in cui vive, si imbatte, prima o poi, nella classica domanda: che fare? Ha un senso impegnarsi, spendere tempo ed energie intellettuali e materiali in una realtà imbevuta fino al midollo di valori opposti, o comunque profondamente avversi, a quelli in cui ci riconosciamo? Tanto più in un contesto dove i mezzi di informazione di massa da un lato, e la società dello spettacolo e del divertimento (anche qui, nel senso letterale del distrarre, dell’allontanare dal centro, dalla sostanza delle cose) dall’altro, hanno assunto un carattere così pervasivo e invasivo da rendere quasi chimerici i propositi di quanti si prefiggono dei mutamenti sostanziali e non di facciata. L’appiattimento è talmente pronunciato da aver indotto Alain de Benoist ad amare considerazioni sulla “straordinaria aspirazione moderna all’omogeneità”, che non risparmia neppure i giovani che pure dovrebbero essere portati per natura alla rivolta generazionale: “Si resta sbalorditi nel vedere fino a che punto la maggior parte dei giovani, anche e sopratutto tra i più ‘ribelli’ – emarginati e spaccatutto – abbia interiorizzato i valori dominanti e come unica opzione sappia proporre soltanto un’accelerazione (‘tutto e subito’)”[1].

Nella foto: Serge Latouche

“Non capisco, ma mi adeguo” è la risposta data da molti che, dopo essere passati nel variegato campo anticonformista, ne sono più o meno rapidamente usciti, preferendo l’uovo oggi (sicuro) alla gallina domani (del tutto ipotetica). Sia chiaro che, dicendo questo, non intendiamo affatto impancarci a censori o moralisti o darci arie di superiorità. Non ne abbiamo la vocazione e possediamo, in compenso, uno spiccato senso del ridicolo. Semplicemente, descriviamo ciò che abbiamo visto, letto e sentito in tanti anni di militanza politica prima e di impegno intellettuale poi. Ma quali prospettive hanno di fronte a loro quanti non solo non capiscono, ma continuano ostinatamente a non volersi adeguare? Sono dei folli, degli illusi, dei don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento? È possibile provare ad immaginare dei percorsi praticabili di fuoriuscita da quello che un tempo si chiamava “sistema” senza finire nel patetico o nel kitsch?
Marino Badiale ha lodevolmente tentato, nel numero 286 di “Diorama”, di fornire qualche primo elemento di risposta, ovviamente bisognoso di approfondimento. Pur condividendo parecchie delle sue affermazioni e dei suoi giudizi, facciamo tuttavia fatica a capire il punto di fuga del suo scritto. In altri termini, dove vuole andare a parare. Dall’ultimo paragrafo del suo testo, sembrerebbe che egli auspichi, in prospettiva, la nascita di “una nuova forza politica”. Subito dopo, Badiale ci fornisce però una descrizione dell’ambiente cui questa forza dovrebbe, quantomeno in prima battuta, fare riferimento (coloro che si oppongono al capitalismo e all’imperialismo) a dir poco sconfortante; ma il guaio è che tale descrizione, oltre ad essere sconfortante, è anche realistica e condivisibile.
È verissimo, infatti, che la fauna umana che si incontra nel milieu anticapitalista e antimperialista “è costituita da persone che presentano distorsioni della personalità tali da renderle non affidabili per un lavoro collettivo”. Ne abbiamo conosciute e ne conosciamo anche noi un discreto numero, ma, contrariamente a Badiale, non siamo granché propensi ad attribuire alle distorsioni di cui costoro patiscono delle nobili motivazioni, pur non escludendole del tutto (il “travaglio profondo” e le “sofferenze individuali” provocate dal doversi confrontare quotidianamente con una realtà ostile). Detto in termini brutali, per noi si tratta, puramente e semplicemente, di gente che non ha tutte le rotelle al posto giusto.

A mano a mano che leggevamo le considerazioni di Badiale, le abbiamo mentalmente associate al nome di un narratore, James Graham Ballard, autore di un trittico di opere (Millennium people, Regno a venire e Il paradiso del diavolo) nelle quali viene sviscerato, con gli strumenti di cui dispone un romanziere – ossia l’affabulazione che riesce però a conservare uno stretto rapporto col reale – lo stesso mondo di marginalità politica e sociale analizzato da Badiale con mezzi che rimandano piuttosto alla filosofia e alla politica. Le analogie tra i due discorsi sono sorprendenti. I personaggi di questi romanzi – che rinviano, rispettivamente, al contesto dell’estremismo di sinistra, del radicalismo destra e del fondamentalismo ecologista – sono, infatti, un vero campionario di turbe psichiatriche e/o psicanalitiche. A differenza di Badiale, tuttavia, Ballard non nutre alcuna illusione sulle potenzialità rivoluzionarie di queste persone, o di una molto ipotetica minoranza all’interno di tale minoranza che, per misteriose ragioni, sarebbe esente da problemi causati da squilibri nei rapporti fra Io, Es e Superio. Ed infatti nei suoi romanzi le loro ribellioni hanno esiti catastrofici. Noi la pensiamo allo stesso modo. Coltivare rapporti privilegiati con costoro non ha alcun senso. Non è possibile cavare sangue dalle rape. Chi, dunque, dovrebbe essere il destinatario di un forte e serio discorso di opposizione?

Potenzialmente, questo pubblico si trova in tutte le fasce sociali e non solo nella nicchia individuata da Badiale. Se, infatti, il punto di partenza che ci accomuna è il presupposto che viviamo in un mondo affetto da profonde carenze, sia a livello individuale che collettivo, è evidente che tali deficienze non risparmiano nessuno. Per rendere la stessa idea, Bauman ha utilizzato – in verità anche abusandone – la metafora della liquidità. Indubbiamente, è meglio affrontare la realtà liquida, e quindi sfuggente e infida, della globalizzazione stando a bordo di un transatlantico anziché su una zattera, ma anche chi vive su un transatlantico non può dire di essere al sicuro, come insegna l’esperienza del Titanic. Dobbiamo allora puntare sulla capacità, insita in ogni essere umano, di ribellarsi, di dire no – capacità che, per quanto assopita a causa dell’omogeneizzazione di cui si parlava all’inizio, non è del tutto spenta.
Anche se ciò può suonare come un atto di fede, crediamo che ci sia (ancora) del vero in ciò che ha scritto Serge Latouche nel suo La scommessa della decrescita: “Penso che sia impossibile colonizzare totalmente le menti; un po’ di senso critico resiste sempre”[2]. Quando, però, dal potenziale passiamo all’attuale, ai processi che sono realmente in atto, lo scenario diventa meno esaltante e promettente. L’opposizione sembra avere la catena misurata. Raggiunta una certa soglia di tensione e mobilitazione, rifluisce, senza produrre risultati significativi. I verdi e i rifondatori comunisti sono una esemplare illustrazione di questa parabola. I diversi movimenti sorti negli ultimi tempi in Italia (contro la linea ferroviaria veloce in Val di Susa, contro la presenza di una base militare americana nel vicentino, contro il Mose a Venezia e il Ponte sullo Stretto), sembrano destinati a conoscere la stessa sorte dei molti che li hanno preceduti: un fuoco di paglia, generoso ma effimero. Questa consapevolezza è stata, in alcuni, talmente acuta da aver prodotto effetti drammatici. Pensiamo ai suicidi di Petra Kelly in Germania e di Alexander Langer nel nostro Paese.

Proprio Langer, commentando la tragica fine della militante verde tedesca, ebbe a dire, quasi prefigurando il suo stesso destino, che “troppo grande è la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”. In una certa misura, ciò è inevitabile. Il mondo reale non corrisponderà mai pienamente ai nostri disegni e desideri ed un vero uomo politico, uno cioè animato dalla vocazione per la politica, deve esserne consapevole, deve saper superare, come ha insegnato Weber, queste difficoltà ed andare avanti. Pro
babilmente, né Kelly né Langer erano politici a trecentosessanta gradi, ma piuttosto il risultato di un miscuglio tra idealismo e politica, dove il primo elemento del composto ha avuto decisamente e fatalmente la meglio, capovolgendosi in disperazione a causa degli scacchi subiti. Tuttavia, è pur vero che la distanza che è stata letale per Langer è in parte spiegabile col fatto che il seme dell’azione politica, per germogliare, ha bisogno di un terreno adatto, in mancanza del quale rimane sterile o produce solo aborti.

La proposta metapolitica, che ci vede impegnati da molto tempo, nasce appunto da questa convinzione. Ci si può obiettare (e ci è stato in effetti da più parti obiettato) che finora essa è rimasta ampiamente sulla carta – in parte per deficienze nostre, in parte per l’estrema povertà dei mezzi di cui disponiamo, in parte per la durezza di cervice e l’ottusità di alcuni interlocutori via via incontrati, in parte per la potenza di seduzione, in termini di prebende e di carriere, di cui si avvale l’apparato di potere – ma ciò nulla toglie al fatto che se prima non si ara e non si dissoda, se non si preparano le menti e gli spiriti, non si va molto lontano e si finisce con l’essere fagocitati da strategie altrui. Questa attività, sebbene abbia punti di contatto con la sfera politica, se ne distingue tuttavia essenzialmente, perché la politica – pur rimandando, nelle sue migliori espressioni, ad orizzonti più vasti – è qualcosa di eminentemente pratico, mentre la metapolitica ha un carattere teorico.

Chi fa politica deve ottenere risultati concreti in tempi possibilmente non biblici, dovendo rendere conto sia al suo entourage, sia ai cittadini che lo hanno eletto (quando, ovviamente, opera in un regime democratico). Egli ha a che fare con una serie di rigidità sistemiche dalle quali può difficilmente prescindere e che contribuiscono ad appiattire e omogeneizzare i discorsi dei vari attori politici, fino a renderli pressoché indistinguibili e intercambiabili, o a confinare l’azione politica nell’ambito della presenza testimoniale, nobile ma priva di incisività. Naturalmente, pure chi si consacra a un’attività di tipo culturale deve ottenere risultati, che però concernono la sfera della conoscenza, della verità; egli deve perciò rendere conto solo a se stesso, alla sua coscienza e onestà. Il suo impegno ha valore in sé e prescinde da possibili ricadute politiche, anche quando queste ultime sono auspicate. L’intellettuale può allora prefiggersi metapoliticamente di creare le condizioni adatte alla produzione di queste ricadute, ma non può mettersi al servizio di esse, perché questo significherebbe cambiare mestiere, correndo peraltro il serio rischio di tradirli entrambi, dato che, come recita un detto evangelico, non si possono servire due padroni. Ora, a noi pare che nel testo di Badiale questi due piani vengano confusi e che l’urgenza, per certi aspetti comprensibile, di dare uno sbocco operativo a determinate idee finisca col nuocere alla lucidità dell’analisi e quindi non favorisca nemmeno un loro eventuale e corretto viatico politico.

Scendendo più nel dettaglio, non si può avere come obiettivo strategico la decrescita, scrivendo che “solo la prospettiva della decrescita rappresenta una via d’uscita dal vicolo cieco in cui l’umanità si è cacciata”, ed al tempo stesso restare legati all’immaginario della civiltà occidentale, facendone proprio l’universalismo in salsa liberale e socialdemocratica che quel vicolo cieco ha potentemente contribuito a creare, perché in questa maniera, come ha osservato Wolfgang Sachs, si scaccia il diavolo con Belzebù: “Si invoca l’universalismo per salvarsi dalla attuale situazione critica, mentre l’universalismo è proprio il peccato originale che quella situazione critica ha generato”[3]. La necessità tutta politica di proporre alle “masse”, come si sarebbe detto un tempo, un percorso ritenuto più appetibile e concreto rispetto a quello agitato dagli estremisti di sinistra e di destra impedisce a Badiale di vedere questa contraddizione, che invece andrebbe risolta ed eliminata con la precisione chirurgica di un’analisi che non faccia sconti a nessuno. Assumere la decrescita come cardine del proprio impegno intellettuale e politico è poco più di un flatus vocis se a tale impegno non si accompagna una chiara consapevolezza dell’irrimediabile fallimento, e quindi della improponibilità, dell’universalismo e del progetto illuministico che lo sorregge, basato sul tentativo di edificare, per dirla ancora con Sachs, “un mondo”, cioè un universo fatto di un genere umano, un mercato, un pianeta.
Ad essere finito in un cul de sac è quello che Giacomo Marramao chiama “universalismo dell’identità” che si è filosoficamente manifestato sia nella forma, da Marramao ritenuta più “nobile”, dell’ “idea kantiana dell’individuo umano come soggetto etico-trascendentale indifferenziato (indipendente dal carattere situato della propria esistenza)”, sia nella forma, implicitamente considerata meno nobile, dell’antropologia utilitaristica[4]. Politicamente, questa concezione dell’uomo ha dato vita allo Stato Leviatano, al modello assimilazionista repubblicano, anello intermedio tra il locale e il globale, che oggi, nell’attuale fase di “passaggio a Occidente”, ovvero di globalizzazione, è entrato in crisi non tanto in termini quantitativi (il numero degli Stati, ricorda infatti Marramao, è semmai cresciuto rispetto al passato), quanto qualitativi, nel senso che lo Stato è diventato uno strumento inefficace, non è più in grado di fare bene il suo mestiere, essendo bypassato da istanze transnazionali.

L’universalismo dell’identità, cioè l’ideologia universalistico-illuministica – che, secondo Sachs, ha trovato nella Carta delle Nazioni Unite una delle sue ultime espressioni – ha dichiarato guerra alla diversità in tutte le sue accezioni, configurandosi come una macchina per annichilire le differenze, nella convinzione che queste ultime fossero sinonimo di conflittualità. Per portare la pace e la prosperità sulla Terra, basterebbe, secondo questa visione delle cose, eliminare ogni elemento di differenziazione, costruire un mondo di spazi, per definizione omogenei e intercambiabili, e non di luoghi, che rimandano inevitabilmente alle diversificate culture che li hanno partoriti. L’universalismo è “spaziocentrico”, non “luogocentrico”. Qualcosa di simile dice anche Latouche quando osserva che la cosmopoli universalista è divoratrice di spazi e che a questa “topofagia” bisogna opporre una “rinascita dei luoghi” e una “riterritorrializzazione”[203]. Gli effetti di questo furore antidifferenzialista, continua Sachs, sono sotto i nostri occhi: “Ovunque si volga lo sguardo, l’omogeneizzazione del mondo è in piena attività. Una monocultura globale si spande a macchia d’olio sull’intero pianeta. Cinquant’anni di sviluppo, foggiati sul modello ‘un mondo’, sono passati. L’esito di tutto ciò, se le apparenze non ingannano, è una visione orrifica: l’uomo moderno, tutto solo nel mondo, per sempre”.

Questa distinzione tra spazi e luoghi è rintracciabile anche in Marramao, dove assume la forma di un’opposizione tra l’Europa, terra di luoghi, e segnatamente di quel luogo tutto europeo, matrice di civiltà, costituito dalla città, dalla cultura cittadina (o meglio, dalle culture cittadine, al plurale) e gli Stati Uniti, terra degli spazi: “L’America del Nord ha strade, spazio dove si passa, ma non luoghi dove ci si incontra”[5]. Mentre in Habermas il dualismo Europa/Stati Uniti ha un carattere congiunturale derivante dalla scelta – che avrebbe “diviso” l’Occidente – delle amministrazioni repubblicane influenzate dagli ideologi neoconservatori di privilegiare un unilateralismo venato di richiami cristiano-fondamentalisti, a scapito della tradizione kantiana, laica e universalistico-illuministica che si manterrebbe integra in Europa e alla quale una futura amministrazione statuni
tense dovrebbe, a suo parere, ritornare[6], in Marramao esso ha un carattere piuttosto strutturale, il quale fa sì che l’Europa rappresenti “l’esatto rovescio del Centauro americano”. Quest’ultimo, avendo “una testa monoculturale e monolonguistica” e “un corpo multietnico e multiconfessionale”, appare fisiologicamente inadatto a raccogliere le sfide del XXI secolo, a governarne le tensioni, sbrogliando la matassa “dei conflitti endemici che l’attraversano”. L’Europa, al contrario, terra di un presente vissuto come kairós, “tempo debito e opportuno” che si oppone alla fretta e di cui le città e le piazze sono una delle manifestazioni, appare “già vaccinata rispetto alle differenze”, conoscendo, in virtù di una storia millenaria, “quella pluralità insopprimibile delle ragioni e dei punti di vista che sola può sostenere una comunità in grado di reggere la sfide del futuro”[7] e che spinge l’Europa, molto più che gli Stati Uniti, nella direzione, molto apprezzata anche dai teorici della decrescita e dagli ecologisti, della valorizzazione di un’“etica della finitudine”, di un positiva declinazione del senso del limite, “vedendo in esso non un ostacolo o una mancanza, ma al contrario un’opportunità: una condizione per dar senso alla nostra esperienza, alle nostre concrete forme di vita”[8]. L’Europa è, storicamente, un “mosaico di dissonanze” (un “arcipelago”, per dirla con Cacciari) che la rendono idonea a sostenere quell’“universalismo della differenza” che Marramao oppone all’universalismo dell’identità di stampo illuministico.

È significativo che Serge Latouche, che della decrescita è uno dei più noti esponenti, si sia scagliato contro l’occidentalizzazione del mondo ed abbia reso omaggio, riconoscendolo come uno dei suoi maestri, a Michael Singleton, cioè a un acerrimo critico dell’universalismo[9]. Un pensiero anticonformista non può non interrogarsi sull’immane carico di dolore, devastazioni, sofferenze, lutti e morte che si cela dietro gli accattivanti e seducenti discorsi occidentalisti di cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Costituzione italiana sono dei riflessi. Se la società basata sulla decrescita è, citiamo ancora Latouche, “necessariamente plurale”, allora essa non può non avere come suo nemico principale “l’universalismo dei valori e dell’economia”[10]. Quest’ultimo va combattuto perché, come ha più volte spiegato Alain de Benoist, è una forma di etnocentrismo mascherato, una maniera per imporre ad altri popoli e culture, spesso ricorrendo a una violenza nutrita di buona coscienza, i propri valori e i propri modelli, a cominciare dallo sviluppo, spacciandoli appunto per universali. Non diversamente si è espresso Immanuel Wallerstein quando ha scritto che “non vi è nulla di più etnocentrico, di più particolaristico delle rivendicazioni universalistiche”[11], mentre Marramao ha criticato la pretesa che “l’homo europaeus rappresenti l’Umanità intera e che la Ragione occidentale costituisca l’autentica matrice e culla della Libertà e l’esclusivo pattern dell’universalismo, a fronte del particolarismo, localismo, irrazionalismo delle altre civiltà”[12].

È sempre stato così, d’altronde. La “retorica del potere” ha fatto costantemente ricorso a motivazioni alte e nobili per coltivare interessi molto concreti e spesso inconfessabili. La disputa che, dopo la cosiddetta scoperta dell’America, vide impegnati Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de Las Casas contiene già in nuce tutti gli elementi del dibattito che ha opposto fino ad oggi i sostenitori dell’universalismo – e delle politiche espansionistiche e imperialistiche che all’universalismo sono inestricabilmente legate – e quelli dei diritti dei popoli. Sepúlveda giustifica l’intervento spagnolo nel Nuovo Mondo (il loro “diritto di ingerenza”, diremmo oggi) appellandosi alla supposta barbarie e crudeltà dei nativi, le quali consigliavano che fossero “governati da altri”, alla legge divina, al diritto naturale e all’evangelizzazione che avrebbe tratto beneficio dalla presenza spagnola in America. Aggiornando leggermente questo lessico, non è difficile immaginare scenari che ci sono molto più familiari: diritti umani, esportazione della democrazia, pericolo islamista, superiorità della civiltà occidentale e giudaico-cristiana.

Questo è il patrimonio ideale di cui il capitalismo assoluto, giustamente deprecato da Badiale, si serve per legittimarsi. Non vediamo alcuna sostanziale soluzione di continuità tra questa forma di capitalismo e quelle dei secoli precedenti che si servivano, per giustificare il proprio discorso, di un apparato valoriale – i diritti civili del liberalismo e quelli sociali del Welfare State – che a Badiale sembra più accettabile, al punto da proporlo come leva per tentare di scardinare il capitalismo assoluto (le linee di continuità e la coerenza del dispiegarsi della Forma-Capitale, per usare un’espressione cara a de Benoist, sono state efficacemente evidenziate da Sophie Bessis nel suo L’Occident et les autres). Al di là delle innegabili, e del resto ovvie, differenze storiche, è sempre rimasta costante la pretesa universalistica occidentale di “dire la norma”, di proporsi e/o imporsi agli altri come idealtipo in cui specchiarsi, nella convinzione che “l’enunciazione dell’universale, qualunque ne sia il contenuto”, sia “appannaggio naturale dell’Occidente”[13]. Chi dubitasse della veridicità di questa affermazione o la ritenesse esagerata, non deve far altro che leggere gli scritti di un intellettuale come Jürgen Habermas, dove è possibile cogliere tale persuasione allo stato puro. Le critiche da lui rivolte agli Stati Uniti nascono dal fatto che, con la scelta unilateralistica in politica estera, essi hanno perso “autorevolezza normativa” e pertanto non hanno più le carte in regola per dire al mondo intero quale deve essere la direzione di marcia (un kantiano “assetto giuridico cosmopolitico” che Habermas vede meglio prefigurato nell’Unione europea e in una Organizzazione delle Nazioni Unite adeguatamente riformata)[14].

Questa pretesa normativa è, peraltro, fortemente conflittuale e polemogena, dal momento che gli altri non fanno fatica a rilevare come l’universalismo occidentale si configuri, con ogni evidenza, come un discorso ad usum delphini: vale per gli altri, ma non per se stessi. La norma universalistica solennemente proclamata ha un’applicazione – nota ancora la Bessis – “a geometria variabile”. L’Occidente è perciò liberale in politica, liberista in economia, difensore dei diritti dell’uomo in ambito filosofico-giuridico quando si rivolge ai paesi terzi per esportarvi i suoi prodotti, siano essi economici o culturali, ma diventa protezionista e statalista quando sono i paesi terzi a prendere sul serio le sue ricette e a bussare alle sue porte.

L’Occidente gioca perciò la partita dell’universalismo con “dadi truccati”. Per farla finita con questa pratica ipocrita, l’Occidente dovrebbe allora, secondo la Bessis, “invalidare il modello al quale ha dato lo statuto di universale”[15]. In questo modo, la smetterebbe di giocare “sporco” e sarebbe più credibile quando chiede sacrifici e cambiamenti. Compito evidentemente molto gravoso che finora ha visto impegnate solo piccole minoranze, tra cui alcuni fautori della decrescita, che, pur muovendosi in direzioni non necessariamente convergenti, hanno però in comune la consapevolezza della necessità di sgombrare il campo da riferimenti all’universalismo occidentale come conditio sine qua non di ogni ulteriore passo in avanti. Ciò porta Latouche e Singleton a passare nel campo opposto del nominalismo e del relativismo. Questi sono i punti di riferimento filosofici che stanno dietro i numerosi lavori di Latouche e che gli hanno valso, a sinistra, l’ostilità degli ambienti più chiusi e settari. La “società della decrescita” è una società che ha rinunciato all’universalismo, c
on tutto il suo corredo di maiuscole (il Progetto, il Progresso, lo Sviluppo, i Diritti dell’Uomo) con le quali, come scrive Singleton, si cerca di costringere dei pali quadrati a entrare dentro buchi rotondi, rettangolari o esagonali, ossia, fuor di metafora, di imporre la civiltà occidentale a culture lontane anni luce da essa[16].

Un altro – e, a nostro parere, più interessante e fruttuoso – tentativo di “invalidare” il modello occidentale è costituito invece da tutte quelle posizioni teoriche le quali, pur rifiutando l’universalismo dell’Occidente, non rinunciano ad avere sullo sfondo un quadro di riferimento di carattere generale. In questa ottica, Alain de Benoist preferisce parlare di universale, e di “costanti universali”, anziché di universalismo – universale che si dà naturalmente in termini plurali e “incarnati”, dato che è in forma mediata, particolare, attraverso cioè le diverse culture, che l’uomo partecipa dell’universale. Oppure di oggettività, di cui l’universalismo è considerato una corruzione e una inversione in quanto tenta di imporre all’essere un dover-essere astratto e arbitrario.
Sul terreno politico, questo discorso assume il volto di un rinnovato sistema imperiale-federale, capace di tenere insieme politicamente (e dunque non in termini puramente giuridici) il locale e il globale[17]. Tra l’universale e il particolare non vi è quindi un rapporto di subordinazione gerarchica, in base al quale tutte le volte che ci si discosta da una visione considerata generale, universale, del bene, del bello, del giusto e del buono, si viene più o meno bruscamente richiamati all’ordine (anche a suon di bombe, come abbiamo più volte potuto constatare negli ultimi tempi), ma un intreccio, una relazione orizzontale, che vede nei contesti particolari non delle entità chiuse in se stesse e non comunicanti tra loro, bensì le innumerevoli lingue, le grammatiche e le sintassi, nelle quali si esprime l’universale e che richiedono, pertanto, un costante sforzo di traduzione (la vera lingua europea, ricorda Marramao, è appunto la traduzione). Ciò pone, indubbiamente, a chi si riconosce in questa impostazione che rigetta il relativismo senza rinunciare a una prospettiva universale, il problema – che potremmo definire dei “casi-limite” – di come atteggiarsi quando l’universale si esprime in una lingua che suona ostica o incomprensibile. Problema difficile, ma che richiede, per poter essere avviato a soluzione, proprio l’abbandono dell’approccio giuridico-normativo propugnato da Habermas, foriero di un uso della violenza perpetrata in totale buona coscienza (Habermas arriva ad augurarsi “lo sviluppo delle cosiddette armi di precisione”[18] che, come ben sappiamo, tanto precise poi non sono), in favore di un più umile approccio politico machiavelliano che privilegia la “verità effettuale della cosa” alla “immaginazione di essa”.

Qualcosa di simile sembra evocare anche Wolfgang Sachs. La prospettiva della costruzione di “un mondo” non è di per sé negativa, ma va sganciata, a suo avviso, dall’omologante sfondo illuministico-universalistico, sforzandosi di andare non verso una “super-nazione” (il che ci farebbe restare all’interno del quadro illuministico), bensì verso una “meta-nazione”, che è “l’orizzonte entro il quale i luoghi vivono la loro densità e la loro profondità”. Per dare un’idea di ciò che intende dire con queste parole, Sachs si richiama esplicitamente allo schema imperiale: “I contadini croati, così come i cittadini di Cracovia, erano anche membri dell’Impero asburgico”. Abbiamo già visto che in Marramao c’è una messa in discussione dell’universalismo dell’identità di matrice illuministica (il modello République) – cui fa da pendant una simmetrica presa di distanze dall’“antiuniversalismo delle differenze” e dal modello Londonistan (comunitarismi, identitarismi, etnicismi, fondamentalismi) – accompagnata dal tentativo di delineare un “universalismo della differenza”, una “politica universalista della differenza” basata su una “sintesi disgiuntiva” che realizzi una relazione, sicuramente ardua, “tra singolarità irriducibili e reciprocamente inassimilabili” e accompagnata altresì dalla coscienza che, nell’interregno in cui ci troviamo, dovremo necessariamente, e ancora per molto tempo, “scrivere con una mano la parola universalità, con l’altra la parola differenza, resistendo alla tentazione di scriverle entrambe con una mano sola: poiché sarebbe comunque la mano sbagliata”[19]. Questa difficile, ma necessaria, coniugazione di universalismo e differenza presuppone – scrive Marramao, forse con un pizzico di provocazione – che noi europei impariamo a “provincializzarci”, vale a dire “a considerare i nostri universali meno centrali e egemonici di quanto la nostra ‘narrativa’ ci ha indotti a credere”[20].

Wallerstein teorizza, dal canto suo, la necessità di passare da un “universalismo europeo” – espressione con la quale si riferisce all’universalismo nella sua accezione negativa di pseudo-universalismo – a un “universalismo universale” che sarebbe un universalismo vero, frutto, secondo una bella formula di Léopold-Sédar Senghor, di un rendez-vous du donner et du recevoir, di un autentico scambio in cui tutti danno e ricevono e dove quindi non c’è un maestro che impartisce lezioni e allievi che le apprendono passivamente. “Ciò che ci viene richiesto”, conclude Wallerstein, “è, allo stesso tempo, di universalizzare i nostri particolari e di particolarizzare i nostri universali, nella forma di un costante scambio dialettico che ci permetta di pervenire a nuove sintesi che siano a loro volta, ovviamente, subito messe in discussione. Ma non si tratta di un gioco semplice”[21]. È vero. Eppure, vale la pena giocarlo. Con decisione e lucidità.

NOTE
[1] A. de Benoist, Ultimo anno, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme 2006, pagg. 84-85.
[2] S. Latouche, Le pari de la décroissance, Fayard, Paris 2006, pagg. 161-162 [ed. it. Feltrinelli, Milano 2007].
[3] W. Sachs, “Un mondo”, in W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, EGA, Torino 2004, pagg. 423-443. Da qui sono tratti anche gli altri riferimenti a questo autore.
[4] G. Marramao, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pag. 58. Su questi temi, Marramao si è soffermato anche in Passaggio a Occidente (Bollati Boringhieri, Torino 2003) e Dopo il Leviatano (Bollati Boringhieri, Torino 2000).
[5] G. Marramao, op. cit., pag. 201.
[6] Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, Laterza, Roma-Bari 2007. La visione di Habermas sembra peccare sia di superficialità, considerando che posizioni unilateralistiche sono state teorizzate e praticate anche dall’amministrazione del democratico Clinton, sia di ingenuità, dal momento che la sua concezione kantiana dei rapporti internazionali contempla “la possibilità che una superpotenza, purché abbia una costituzione democratica e sia lungimirante nelle sue azioni, non sempre strumentalizzi il diritto internazionale ai propri fini, bensì promuova un progetto che finisca col legarle le mani” [147](sic!).
[7] G. Marramao, op. cit., pagg. 204-205.
[8] Ibidem, pagg. 105-106.
[9] Cfr. M. Singleton, Critique de l’ethnocentrisme, (con la prefazione di Serge Latouche “Un parcours iconoclaste”), Parangon, Paris 2004.
[10] S. Latouche, op. cit., pagg. 148-149.
[11] I. Wallerstein, La retorica del potere, Fazi, Roma 2007, pag. 52.
[12] G. Marramao, op. cit., pag. 159.
[13] S. Bessis, op. cit., pag. 37 [ed. it. EGA, Torino 2003]. [14] J. Habermas, op. cit, pag. 8. [15] S. Bessis, op. cit., pag. 199. [16] M. Singleton, op. cit., pag. 37.
[17] Dalla vasta produzione saggistica di Alain de Benoist su questi argomenti, segnaliamo almeno: L’impero interiore (Ponte alle Grazie, Firenze 1996), Oltre i diritti dell’uomo (Settimo Sigillo, Roma 2004), Identità e comunità (Guida, Napoli 2005) e i capitoli sui diritti umani e sul federalismo nel s
econdo volume di Pensiero ribelle (di imminente pubblicazione per le edizioni Controcorrente).
[18] J. Habermas, op. cit., pag. 174.
[19] G. Marramao, op. cit., pag. 43.
[20] Ibidem, pag. 195.
[21] I. Wallerstein, op. cit., pag. 64.