Afghanistan, finta pace e vera guerra

di Floriana Lipparini
da www.womenews.net

Basta un giochetto verbale: la guerra la chiamiamo imposizione della pace, e tutto quadra. È durato poche ore lo spazio riservato sulle pagine web dei quotidiani alle esternazioni dei ministri La Russa e Frattini in merito alla presenza dei soldati italiani in Afghanistan, che avrebbero invece dovuto sollevare notevole clamore, se questo fosse un paese normale e le violazioni alla Costituzione contassero ancora qualcosa.

I due ministri, chiedendo di cambiare il codice che regola la presenza dell’esercito italiano in Afghanistan, finora ufficialmente in “missione di pace”, hanno svelato quel che tutti dovrebbero aver già capito: è da parecchio che gli italiani partecipano a guerre in paesi lontani, mimetizzate sotto l’etichetta di missioni internazionali.

Nella nostra epoca i poteri mondiali hanno perfezionato i falsi pretesti da sempre usati per giustificare le guerre, giungendo spudoratamente a rovesciare il senso delle parole nel loro contrario. L’aggressione armata a un paese sovrano per rapinarlo delle risorse è diventata una operazione di peacekeeping. Insomma, basta un giochetto verbale: la guerra la chiamiamo imposizione della pace, e tutto quadra.

La presenza armata in Afghanistan è stata contrabbandata come una nobile missione per “portare la democrazia” (ma la democrazia non è un pacco da recapitare con la forza), e in particolare per “liberare le donne dal burqa”: peccato che di democrazia se ne veda ben poca e la condizione delle donne non sia migliorata affatto, costrette a difendersi dai talebani da un lato e dalle bombe dall’altro.

Da tempo, senza distinzioni fra destra e sinistra che in questo vanno perfettamente d’accordo, l’Italia si è tranquillamente allineata a una cinica dottrina: è lecito fare la guerra fuori dei propri confini in nome dei propri interessi. In altre parole, possiamo invadere un Paese che non ci minaccia in alcun modo, e bombardarlo senza riguardo per i civili, pur di accaparrarci quelle maledette fonti energetiche di cui abbiamo continuamente bisogno per mantenere il nostro “livello di vita”. A ben vedere, è peggio del vecchio colonialismo.

In questi anni, per soprammercato, la falsa coscienza tanto utile a coprire gli interventi armati si è estesa anche ad altri aspetti della vita collettiva. Le parole del potere suonano sempre più false in ogni campo. Se le bugie su una realtà così tragica come la guerra hanno funzionato con tanto successo, perché non adottarle come metodo universale buono a tenere il malcontento sotto controllo?

La Russa però non è così audace da portare fino in fondo la sua operazione verità che evidentemente gli serve per trovare altri fondi da destinare alla missione, e forse rendere meno vulnerabili i soldati coinvolti nella sciagurata vicenda. Passare dal finto “codice di pace” a un vero “codice di guerra” gli deve esser parso troppo esagerato. Ed ecco la proposta: un codice né di pace né di guerra. Un prodigio di relativismo: come dire né vero né falso, né giorno né notte, né giusto né sbagliato… Quando si dice la diplomazia.

Putroppo però le vittime della guerra cui gli italiani partecipano non sono “né vive né morte”, sono morte e basta. E la guerra è guerra, come dovrebbero ben sapere anche quegli esponenti dei partiti di sinistra che si baloccano con distinzioni verbali di lana caprina per tacitarsi la coscienza.

Eppure il rifiuto della guerra e della violenza è stato per anni al centro dell’impegno di un grande movimento, e in particolare ha rappresentato il cuore della lucida riflessione critica di molte donne sul patriarcato. Non solo una riflessione: ne sono nate anche mille esperienze, mille iniziative di donne che hanno coniugato pensiero e azione con la presenza viva nei luoghi difficili colpiti dalle guerre.

Poi questo percorso si è interrotto, forse anche perché la nostra violenza domestica tanto a lungo ignorata – quella vera e propria guerra che da millenni si consuma ai danni delle donne nelle case e nelle strade – ha giustamente richiesto tutte le energie. Però ci sono momenti in cui non si può tacere per non essere complici, e occorre dire parole di verità, per preservare quel tanto di umano che ancora rimane.

Non è bombardando e uccidendo che si aiutano le popolazioni a liberarsi da regimi integralisti e corrotti e dagli attacchi terroristici. Se è davvero questo lo scopo da raggiungere, sono altre le vie da percorrere: interposizione, diplomazia popolare, sostegno alla società civile, alle associazioni femminili e alle organizzazioni per i diritti umani, aiuti economici mirati… Ma lo scopo della nostra e altrui presenza armata in Afghanistan evidentemente è un altro: in qualunque zona del mondo, i cosiddetti corridoi dove passano gli oleodotti vanno presidiati con le armi per assicurarne lo sfruttamento a pro dell’Occidente. Senza contare il fatto che ogni guerra serve comunque a testare le nuove armi prodotte da un’industria assassina. E senza contare gli effetti nocivi sull’ambiente che armi vecchie e nuove producono a lunghissimo termine.

Adesso, la parziale rottura dell’ipocrisia di stato rende nota anche alle coscienze meno sensibili questa gravissima verità: stare in Afghanistan significa partecipare attivamente alla guerra, in contrasto con l’articolo 11 della nostra Costituzione. In altre parole, significa condividere la responsabilità di ogni vita cancellata, di ogni corpo dilaniato.

Una verità che ogni pacifista conosce e denuncia da tempo, anche se è sempre più difficile rompere il muro dell’indifferenza. Sembra di ripetere parole già mille volte dette invano. Certo sappiamo quale oscuro e profondo viluppo di pulsioni legate anche al rapporto fra i sessi vi sia all’origine della violenza guerresca, e quanto complicato sia affrontarne il nodo.

Tuttavia sarebbe già un successo riuscire a decostruire quel castello di menzogne su cui si fonda la retorica bellicista. La guerra non è solo la morte di ogni umanità, è anche uno strumento obsoleto, arcaico, inquinante ed antieconomico, legato alle vecchie logiche dello sviluppo illimitato. Almeno su questo piano, i nuovi sguardi sul mondo che si stanno moltiplicando, a partire dai ragionamenti sulla decrescita, sull’ambiente e sulla green economy, possono dare nuova linfa e nuove parole a un movimento stanco che deve ritrovare impegno ed energia.