Politica e lotta dei lavoratori

di Franco Astengo
da www.aprileonline.info

Sulle colonne di “Repubblica”, Luciano Gallino evidenzia i limiti delle due vicende: la ridotta dimensione degli impianti, la possibilità di far valere forme di lotta particolarmente impattanti sull’opinione pubblica, ovviamente con grandi rischi da parte dei lavoratori che le conducono.

Le osservazioni di Gallino risultano del tutto condivisibili, così come appare possibile andare con la memoria a situazioni analoghe, nel passato, più o meno vittoriose: ad esempio, la prima occasione in cui si sperimentò lo sciopero della fame (tipico atteggiamento “radical”) in una fabbrica , si trattava della Fornicoke di Vado Ligure nel 1984, il risultato non fu esaltante.

Il discorso, però, va ripreso su altre coordinate: prima fra tutte quella riguardante la prospettiva dell’autunno, quando la crisi azzannerà quel che rimane della struttura industriale del Paese, mettendo a rischio ulteriori posti di lavoro all’interno di un quadro dominato dalla precarietà, e quindi da una debolezza intrinseca di una parte rilevante dei soggetti interessati, che rischiano davvero di non avere voce e prospettiva di lotta.

La FIOM farà sicuramente la sua parte, ma sarà difficile riuscire a determinare un assetto unitario ad una lotta che, nei suoi connotati difensivi, appare già molto frastagliata nelle sue forme, nei suoi riferimenti geografici, nella diversità delle realtà produttive, in una situazione dove le altre sigle sindacali hanno puntato, sfondando, sul decentramento, la settorializzazione, il localismo.

Il quadro complessivo dell’industria italiana ci dice che gli operai ci sono ancora, ma che la realtà italiana appare troppo debole, principalmente rispetto al quadro internazionale, e priva di settori-chiave: la siderurgia è stata ridimensionata da scelte sbagliate ed intempestive; la chimica è stata divorata da Tangentopoli; l’agro-alimentare, anch’esso dalla corruzione; l’elettronica da opzioni diverse perseguite al vertice del gruppo leader; la ricerca energetica si è fermata nel senso della ricerca verso le energie rinnovabili e, paradossalmente, proprio nel momento in cui nel mondo si parla con forza di “green-economy” la destra italiana rilancia il nucleare; le privatizzazioni hanno indebolito il ruolo delle grandi utilities; le infrastrutture, stradali, ferroviarie, portuali, non si sono sviluppate se non per la parte destinata alle esigenze individuali e non certo a quelle collettive del Paese; il monetarismo, anche in funzione europea, perseguito quale sola strada possibile, ha aperto le porte ad un liberismo di basso profilo; l’attacco al welfare – state ha determinato il rinserramento in modelli di tipo familistico, provocando gravi squilibri sociali; l’immigrazione appare affrontata nei termini di lotta alla clandestinità e non di integrazione rivolta alla crescita di generazioni nuove capaci di imprimere una svolta alla stagnazione economica e produttiva; l’Università e la scuola, in pesante arretrato da tutti i punti di vista, appaiono i luoghi ideali per esercitarsi sui tagli di bilancio; gli Enti locali hanno affrontato il tema della dismissione delle grandi strutture industriali in termini, pressoché esclusivi, di speculazione edilizia e cementificazione (la Liguria, sotto questo aspetto appare davvero il modello negativo da indicare).
Si potrebbe proseguire a lungo, ma ci fermiamo qui, non dimenticando ovviamente evasione fiscale, presenza della criminalità organizzata, enormità dello squilibrio nord-sud, il facile “via libera” a delocalizzazioni “selvagge”: quando, commentando la lotta dei lavoratori dell’Innocenti, si sottolinea, da più parti, la “distanza” della politica, credo proprio si dovrebbe parlare di questo, non tanto e non solo della solidarietà portata verbalmente ai cancelli.

La “politica”, o meglio, la “politica” della sinistra italiana, non offre in questo momento una alternativa concreta, non solo e non tanto in termini di governo, ma soprattutto sul terreno fondamentale di una progettualità complessiva, che parta dall’idea di una ripresa di ruolo della programmazione e dell’intervento pubblico in economia, del rilancio dei settori fondamentali dell’industria superando la logica di piccolo cabotaggio del “made in Italy” (scarpe, occhiali, moda, pubblicità: tutte cose belle, utili, ma non decisive).
La qualità della crisi ci richiama ad una revisione profonda del facile “nuovismo” con il quale abbiamo dovuto fare i conti, sia sul piano più propriamente politico ( ruolo dei partiti, Parlamento, cessione di sovranità dello Stato -Nazione), sia sul terreno della facilità con la quale si è oscillati, rispetto alla globalizzazione liberista, tra una accettazione acritica ed una contestazione fine a sé stessa.
Ecco: questo mi pare un tema fondamentale da discutere, nel momento in cui la sinistra italiana, appare priva di una soggettività politica organizzata all’altezza di questa contraddizioni e si prepara, obbligatoriamente, una nuova stagione di lotta.