La menzogna svelata

di Enrico Piovesana
da www.peacereporter.net

Ossezia del Sud: i sopravvissuti dell’aggressione georgiana di agosto raccontano quello che i media occidentali hanno deciso di ignorare. Reportage da Tskhinvali

“Se non fossero arrivati i russi, a quest’ora saremmo tutti morti”. Valentin butta il mozzicone di sigaretta tra i calcinacci che ricoprono il pavimento del suo appartamento, all’ultimo piano di un grande condominio alla periferia di Tskhinvali. Muri e soffitti sono anneriti dal fuoco e sventrati dalle cannonate georgiane. Alle fiamme sono sopravvissute solo le reti contorte dei letti e i cocci delle stoviglie di ceramica. “Questo palazzo è stato colpito dai missili Grad, dalle bombe aeree e dai carri armati. I georgiani hanno usato contro di noi tutte le armi che avevano. Solo in questa scala sono morte due persone. In duecento, per tre notti e tre giorni, abbiamo vissuto nelle cantine, senza luce, acqua né cibo. E ci è andata bene: in centro i soldati georgiani aprivano le botole dei rifugi e ci lanciavano dentro le bombe a mano”.

Nel cortile condominiale, dove alcune donne lavano i piatti con l’acqua del pozzo, incontriamo Murat. Ha appesa al taschino della camicia, con un fiocco nero, la foto di suo figlio Fiddar. “Era un combattente, lo hanno ucciso qui vicino i georgiani mentre cercava con alcuni compagni di liberare dei civili presi in ostaggio”. Ci porta nel suo appartamento, nel condominio di fronte, per mostrarci la foto del figlio incorniciata, pronta per la cerimonia funebre dell’indomani. Sono passati quaranta giorni dall’attacco georgiano, e in tutta l’Ossezia del Sud sono iniziate le tradizionali cerimonie di commemorazione delle oltre 1.500 vittime, quasi tutte civili. “La festa per il mio Fiddar sarà dopodomani. Ora sto andando a un’altra cerimonia, in ricordo di un suo amico, Sergi. Volete venire?”.

Saliamo sulla sua vecchia Volga e raggiungiamo il cortiletto di una palazzina, affollato da almeno duecento persone: anziani con la coppola, donne ben vestite, giovani e meno giovani ancora in mimetica, vecchie con foulard neri in testa. Tanti portano le foto dei loro cari spillate al petto come Murat. Tutti piangono in silenzio, con i fazzoletti in mano. Solo i bambini giocano e ridono correndo tra le gambe delle persone che si abbracciano scambiandosi le condoglianze. In un angolo ribollono enormi pentoloni pieni di carne per il banchetto.
Sergi’s motherIl lamento straziante della madre di Sergi inizia a sentirsi fin dalle scale, aumentando man mano che si avvicina al portone, da cui esce, di nero vestita, mostrando a tutti la foto del figlio, ucciso alla guida della sua auto dalla mitragliatrice di un tank georgiano. Il suo pianto disperato contagia tutte le donne che le stanno attorno in un tragico coro che fa da sottofondo al discorso del marito, che maledice la barbarie della guerra e dei georgiani. Poi la famiglia sale in macchina alla volta del cimitero, mentre gli invitati rimangono, prendendo posto attorno a due lunghi tavolacci imbanditi con montagne di piroghì alla carne e con centinaia di bottiglie di vino rosso e vodka.

Vecislav, un vecchio amico di Murat, insiste perché ci sediamo al tavolo degli uomini e ci invita l’indomani alla cerimonia in memoria di sua nipote Elina, che sorride felice da un piccola foto in bianco e nero all’occhiello della sua giacca. “E’ bruciata viva con sua madre. La loro casa è stata colpita da un Grad georgiano. Ora tra quelle mura non ci vivrà più nessuno, perché suo padre e suo fratello erano già stati uccisi dai georgiani nella guerra del ’91”.

Anche a casa di Soslan, nella centrale via Stalin, iniziano a radunarsi parenti e amici per un’altra cerimonia di commemorazione: quella di sua madre Liana e di sua nonna Elena, uccise da un Grad georgiano mentre erano risalite in casa dal rifugio per prendere del cibo. Sono sepolte sotto un unico tumulo di terra nell’orto dietro casa. “In città si combatteva, non potevamo seppellirle al cimitero. Lo facciamo oggi”. Tutto è pronto per la riesumazione: pale, corone di fiori e due grandi croci ortodosse di legno. Mancano solo le bare.

Nonostante la velocità con cui le centinaia di operaie e operai ceceni delle imprese edili russe stanno ricostruendo e ripulendo la città, Tskhinvali mostra ancora, dopo oltre un mese, tutti i segni dell’attacco georgiano. Gran parte degli edifici del centro – trecento abitazioni civili, scuole, asili, università, biblioteche, palazzi governativi – sono completamente distrutti dalle bombe e dalle fiamme, ricoperti da teli verdi che pare vogliano pudicamente nascondere la violenza subita. Tutte le altre costruzioni sono crivellate dagli spari delle mitragliatrici o squarciati dalle cannonate. L’asfalto delle strade del centro città, ora percorse da auto scassate e mezzi militari russi, è lacerato dalle tracce dei cingoli dei carri armati georgiani, dei quali sono rimasti ormai solo pochi rottami sparsi qua e là. Tra questi, la torretta di un tank colpito da un lanciarazzi, saltata in aria e ricaduta a terra con il cannone completamente infilzato nel suolo. Perfino gli alberi della città sono feriti: rami spezzati, tronchi sfregiati dalle pallottole, molti bruciati o abbattuti.

Ma ciò che più lascia esterrefatti è la vista dell’unico ospedale della città, anch’esso semidistrutto dalle cannonate e dalle mitragliatrici georgiane. “Nemmeno i nazisti sparavano di proposito contro gli ospedali!”, si sfoga Tina, l’anziana capoinfermiera, con due occhi celesti ancora arrossati dalla stanchezza. Mostrandoci gli umidi sotterranei dove durante i bombardamenti sono stati trasferiti e curati centinaia di feriti, ci racconta la sua esperienza di quei giorni. “Lavoravamo senza macchinari e senza luce, con pochissime medicine. Sopra di noi continuavano a cadere le bombe. Io non mi sono fermata un minuto, non ho dormito mai, non c’era tempo. Ma ora non mi sento molto bene”, dice iniziando a piangere. “Quando siamo riemersi da quell’inferno – continua con la voce rotta – c’è stata una cosa che ci ha fatto più male delle bombe: scoprire che le televisioni internazionali parlavano solo della Georgia e non dicevano una parola della tragedia che abbiamo vissuto qui. Vi prego, almeno voi raccontatela, dite la verità”.

La rabbia dei sudosseti per come la guerra d’agosto è stata raccontata dai mass-media occidentali è più che motivata. Al silenzio sui crimini di guerra georgiani si è sommata la beffa della distorsione della verità. Nell’ex quartiere ebraico di Tskhinvali, raso al suolo dall’artiglieria georgiana appostata sulla collina di fronte, un’anziana che ci vede filmare le macerie si avvicina, chiedendoci per favore di non fare come quella televisione europea che aveva mandato in onda le drammatiche immagini del quartiere distrutto dicendo che si trattava di Gori, in Georgia.

Josiph, laureato in legge, lavorava per l’Osce. “I georgiani hanno sparato anche contro la sede dell’organizzazione e contro le loro auto. Erano venti funzionari stranieri. Il pomeriggio dell’8 i georgiani hanno concesso loro di lasciare la città e quelli, arrivati a Vladikavkaz, in conferenza stampa hanno detto che non avevano informazioni su quanto stava accadendo qui! Ma perché i vostri governi hanno appoggiato il regime fascista e criminale di Saakashvili? Perché le vostre istruite opinioni pubbliche non hanno protestato per l’aggressione georgiana contro di noi?”, domanda Josiph con sincero interesse e nostro grande imbarazzo. “Vi rendete conto che hanno bombardato a tappeto una città piena di civili, a freddo, anzi a tradimento, perché un’ora prima avevano detto che non avrebbero mai attaccato. E lo hanno fatto di notte, mentre la gente dormiva nei propri letti. I carri armati georgiani hanno sparato contro obiettivi civili, abitazioni, scuole, ospedali. Sparavano alla cieca, su tutto quello che si muoveva. I soldati georgiani buttavano granate nei rifugi. Hanno sparato con tank e cecchini contro le colonne di auto cariche di civili che
cercavano di lasciare la città: tantissima gente è morta così! Non vi dice niente che il nome dell’operazione militare georgiana era ’Campo pulito’? Volevano sterminarci, cancellarci come popolo! E ci sarebbero riusciti se non fosse stato per i russi! Altro che reazione sproporzionata!”.

Alan è un membro delle forze speciali sudossete. Fuma tanto, ma non beve vodka. “I georgiani sono entrati in città la mattina dell’8 agosto, dopo un’intera notte di bombardamenti. Sono arrivati in forze a bordo di blindati americani Scorpion e carri T-72 nuovi di fabbricazione ucraina, armati di fucili M-16 e altre armi americane. Li abbiamo fronteggiati da soli alle porte della città e poi in centro. Dopo ore di duri combattimenti, siamo riusciti a fermare la loro avanzata, salvando dalla distruzione almeno i quartieri più settentrionali. Intorno alle cinque del pomeriggio hanno iniziato a ripiegare verso il confine e sono ricominciati i bombardamenti, fino al mattino successivo, quando hanno tentato di infiltrare dei commando in città. Finalmente, verso la mezzanotte del 9 agosto è entrata in città l’armata russa, che ha poi inseguito i georgiani fino alle porte di Tbilisi. I georgiani erano meglio armati e preparati per l’attacco, ma non per la difesa, perché pensavano di vincere subito e che la Russia non sarebbe intervenuta. Altrimenti, come prima cosa, avrebbero bombardato il traforo di Roki per impedire l‘ingresso delle forze russe”.

La casa a due piani di Malvina, in pieno centro, è stata completamente distrutta da un missile Grad. Suo marito Pavel solleva la carcassa del micidiale ordigno e ci mostra l’unica stanza ancora intatta: un ripostiglio senza finestre, riadattato a camera da letto. “Quella sera del 7 agosto – racconta Malvina – eravamo a cena e guardavamo la televisione: c’era il presidente georgiano Saakashvili che, in diretta, diceva che non avrebbe mai ordinato un attacco contro i suoi concittadini. Un ora e mezzo dopo, alle undici e mezza circa, si è scatenato l’inferno. Siamo corsi giù in cantina. La terra non smetteva di tremare, le esplosioni erano continue. E’ durato fino a metà mattina. Quando siamo usciti, la nostra casa non c’era più. Guardate qui – dice piangendo e mostrandoci cocci di piatti e bicchieri – era il corredo per mia figlia: il suo matrimonio era fissato per il 17 agosto. Anche il suo vestito da sposa è andato bruciato. Era bellissimo. Ora non abbiamo più niente”, dice scoppiando in lacrime.

Zaira trema ancora come una foglia: a distanza di oltre un mese è ancora sotto shock. Si aggira con gli occhi spiritati tra le macerie della sua casa, distrutta fino alle fondamenta da una bomba sganciata da un caccia georgiano. Dove c’era la cucina ora c’è solo un cratere largo un paio di metri. “Abbiamo perso tutto per colpa dei georgiani. Siamo vivi per miracolo. Sono degli animali! Io prima avevo tanti amici georgiani, ma ora non voglio più vedere quella gente, non voglio più sentir parlare la loro lingua!”.

Le dure parole di Zaira ci vengono tradotte dall’osseto all’inglese da Eika, una ragazza di padre osseto e madre georgiana, che a Tbilisi studia all’università, ha parenti e amici. “Questa guerra ha scavato un solco profondo tra osseti e georgiani. Perfino mio padre ha cominciato a litigare con mia madre. E io, quando sento al telefono i miei parenti, evito l’argomento perché ho paura di quello che direbbero. Però, vedendo cos’ha subito questa gente, bisogna capirli. L’odio nasce dalla paura. E’ per paura, per esempio, che dopo la guerra gli osseti hanno distrutto i villaggi dell’enclave georgiana a nord di qui. Il 23 agosto – racconta Eika – un mio amico, un soldato sudosseto, mi ha chiamato dal villaggio georgiano di Kekhvi mentre stavano appiccando il fuoco alle case per dirmi che avevano trovato un bulldozer con cui raderle al suolo più velocemente. Quei villaggi erano abbandonati: nei giorni precedenti l’attacco georgiano, la popolazione era stata gradualmente evacuata. L’enclave era stata occupata dai georgiani durante la prima guerra, nel ’91. E da allora, gli osseti che provavano ad attraversarla venivano presi a fucilate”.

Per fortuna il velenoso seme dell’odio etnico sembra non attecchire in terra osseta. “Una cosa è quel bastardo di Saakashvili e il suo bestiale esercito addestrato dagli americani. Un’altra sono i georgiani in generale, la gente georgiana: quelli sono dei poveracci come noi”, dice Jamal, combattente delle milizie ossete, che indossa una divisa ‘fatta in casa’ con una tuta da lavoro cinese su cui ha cucito le mostrine della polizia russa. “Io ho tanti amici georgiani. Tanti georgiani di Tskhinvali e dei villaggi hanno combattuto al nostro fianco in quei giorni contro l’esercito di Saakashvili. Chiedete in giro!”.

Troviamo conferma di questo ad Arkneti, una quindicina di chilometri a ovest di Tskhinvali, uno dei tanti villaggi ‘misti’ dove convivono da sempre osseti e georgiani. “Certo che ho combattuto contro i soldati georgiani!”, racconta un georgiano al tavolo dell’unico bar del villaggio. Non vuole dire il suo nome perché ha paura di essere ricercato dalle autorità di Tbilisi come traditore. “Sono georgiano anch’io, ma se attaccano il mio villaggio, la mia casa, cosa dovrei fare? Io sono nato qui, la mia vita è qui e i miei amici sono qui, osseti e georgiani”.

Inal è un giornalista locale, poeta a tempo perso. “Voi occidentali ci chiamate ‘separatisti’, come fanno i georgiani. Ma se si guarda alla storia di questo conflitto e al diritto internazionale è chiaro che i separatisti sono i georgiani, non noi. Nel settembre del 1990, quando c’era ancora l’Unione Sovietica, la regione autonoma dell’Ossezia del Sud, che all’epoca era parte della Repubblica sovietica georgiana, decise di rimanere a far parte dell’Urss. Questa scelta, del tutto legittima e legale, fu poi sancita nel marzo ‘91 da un referendum che si tenne in tutta l’Unione Sovietica. Un mese dopo, in aprile, la Georgia dichiarò la propria indipendenza da Mosca, pretendendo di mantenere la sovranità sull’Ossezia del Sud con la forza. Tbilisi dichiarò lo stato d’emergenza e ci attaccò: vennero bruciati più di cento villaggi e uccise oltre duemila persone. In trentamila fuggirono in Ossezia del Nord. Solo nel gennaio del ‘92, dopo la caduta dell’Urss, l’Ossezia del Sud si proclamò Stato indipendente, nella speranza di mettersi al riparo dalle aggressioni georgiane. Che invece ricominciarono dopo la seconda breve guerra del 2004, proseguendo fino al barbaro attacco di agosto”.

Il vecchio Ilia, classe ’24, ex professore di matematica e fisica che ha combattuto a Odessa contro i tedeschi nella Seconda Guerra mondiale, è la memoria storica di questo conflitto. “Dopo la rivoluzione d’Ottobre – racconta Ilia come un nonno che racconta una favola ai nipotini – quindicimila bolscevichi sudosseti furono massacrati dai menscevichi georgiani. In sessantamila fuggirono oltre le montagne. Quelli che rimasero, come la mia famiglia, furono sempre trattati come cittadini inferiori: agli osseti di Georgia fu vietato di avere più di due figli, di usare la nostra lingua e di accedere ai lavori statali. Le cose sono migliorate solo dopo la morte di Stalin”.

La campana della vecchia chiesetta ortodossa di Santa Maria, l’unica della città, suona a morto. Dentro, nella penombra e nel silenzio, le fiammelle di centinaia di candele accese in ricordo delle vittime di questa guerra illuminano le icone dorate che tappezzano le pareti. I devoti rendono grazie a San Giorgio, molto venerato da queste parti, il santo che uccise il drago simbolo del male. Sul muro fuori dalla chiesa, dipinte a vernice, le parole di un ringraziamento più terreno: “Spasìba Rossìa”, grazie Russia.