Un rito fondamentale, perché collettivo

di Younis Tawfik
in “La Stampa” del 14 agosto 2009

Sarà sempre più difficile la convivenza tra precetti diventati modo di vivere, tradizioni e un fatto più culturale che religioso dell’Islam e quel che la società occidentale moderna chiede ai suoi cittadini, immigrati inclusi, frutto di una evoluzione socio-culturale dovuta alla laicità e agli interessi economici ed industriali.

Il consiglio islamico europeo ha dichiarato che venerdì 21 agosto cadrà il primo giorno di digiuno, oltre al caldo estivo si potrà interrompere soltanto al tramonto e questo non avverrà prima delle ore venti, almeno per i primi dieci giorni del mese.

La rottura involontaria del digiuno non comporta nessuna sanzione, purché si riprenda subito dopo aver preso coscienza della rottura. In caso di rottura consapevole, bisogna rimediare con l’offerta di un pasto a un certo numero di musulmani bisognosi, oppure dare l’equivalente in denaro, diversamente bisogna digiunare sessanta giorni.

Il digiuno non è soltanto l’astensione da ogni cibo e bevanda, ma anche da qualsiasi contatto sessuale e ogni altro cattivo pensiero o azione, durante la giornata del digiuno fino al tramonto di ciascun giorno. Non bisogna litigare, né mentire, né calunniare. Il significato spirituale nella prova del digiuno è più importante di quello materiale per il fatto che l’uomo obbedisce a un ordine divino.

Egli impara a tenere sotto controllo i suoi desideri fisici e supera la sua natura umana. Il tramonto del sole dà fine al digiuno e l’astinenza viene rotta con dei datteri o bevendo dell’acqua, come vuole la «sunnah» del Profeta. La rottura «iftar», per tradizione, va preceduta da una breve preghiera.

Dunque non si tratta soltanto di un precetto obbligatorio ma di un rito collettivo allo quale i musulmani, sin da bambini, sono abituati e anche la loro stessa struttura fisica si è adeguata a questo tipo di dieta che oltre allo spirito snellisce anche il carattere e il modo di imporsi a se stessi e all’altro.