XINJIANG, UNA QUESTIONE NON SOLO CINESE

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

La violenta repressione con la quale Pechino sta cercando di soffocare la dissidenza uiguri e le azioni di polizia che accompagnano gli scontri che dal 5 luglio scorso infiammato la capitale della provincia orientale dello Xinjiang, sono la dimostrazione pratica della fallimentare “politica dell’armonia” del presidente Hu Jintao: 197 morti, più di 1600 feriti, 1500 dimostranti fermati e detenuti senza formali incriminazioni, 319 persone ancora rinchiuse in carcere. Un clima di odio e di diffidenza che, giorno dopo giorno, alimenta il rischio di nuovi incidenti e che si radica e si diffonde attraverso i vari strati della popolazione: dalla rete, dove il leader del Partito islamico del Turkistan (Tip), Abdul-Haq al-Turkistani, grida vendetta e lancia appelli ai musulmani affinché attacchino tutto ciò che rappresenta la Repubblica popolare; dalla strada, dove le forze di polizia, nelle speranza di ottenere informazioni, distribuiscono la lista e le foto dei ricercati e dei latitanti che hanno partecipato agli scontri.

Una situazione difficile, che coinvolge Paesi come la Turchia – patria ancestrale per tutte le popolazioni turcofone – e che potrebbe fare da cassa risonante a tutti quei problemi che il nuovo assetto post-bipolare ha scatenato in Asia centrale. Sono ormai cinquant’anni che lo Xinjiang è colpito da una sfrenata politica di “ripopolamento”, un flusso migratorio che ha sempre favorito l’etnia han e ha dato luogo ad una vera e propria diaspora: oggi in Turchia vivono 300 mila uiguri, 50 mila in Kirghizistan, 300 mila in Kazakistan, migliaia negli Stati Uniti, in Europa e nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Un processo a senso unico che nell’ultimo decennio è cresciuto in maniera esponenziale e che il governo ha blindato attraverso una serie di intese che hanno coinvolto i Paesi confinanti.

I Trattati per il rafforzamento dell’appoggio militare e la riduzione delle forze nelle regioni di confine, sottoscritti nel 1996 e 1997 dal Gruppo di Shanghai, composto da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan; la Dichiarazione che nel 2001 ha dato vita alla Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’organizzazione intergovernativa che copre un’area di 30 milioni di chilometri quadrati e che abbraccia un miliardo e mezzo di individui, alla quale ha aderito anche l’Uzbekistan e con la quale la Cina si è assicurata la rinuncia al sostegno delle regioni secessioniste da parte dei Paesi firmatari; il Trattato per i buoni rapporti tra Stati confinanti, firmato nello stesso anno da Russia e Cina.

Per giustificare la mano pesante e sviare l’attenzione della comunità internazionale dalle aspirazione secessioniste delle province cinesi di confine, Pechino è ricorsa all’uso di uno spauracchio ormai collaudato, un argomento particolarmente caro all’ex presidente americano George W. Bush: l’islamismo radicale e i pericolosi legami della resistenza uiguri al terrorismo internazionale. Ma nel caso dello Xinjiang, il governo cinese è si è spinto anche oltre, arrivando a ritirare i film in concorso al festival cinematografico di Melbourne come ritorsione alla proiezione di “The 10 Conditions of Love”, il documentario di Jeff Daniels che illustra le persecuzioni cinesi contro la minoranza turcofona del Turkistan orientale.

Una politica che aveva già intrapresa trasformando Rebiya Kadeer, la donna d’affari che per quasi trent’anni ha lavorato in armonia con le autorità ed ha creato un impero commerciale da 30 milioni di dollari, nel capo di una spietata banda di sovversivi, la mente e l’organizzatrice dei gruppi ribelli e degli scontri di luglio. Una pericolosa terrorista insomma, che ha lasciato la Conferenza politica consultiva del Popolo per guidare la lotta per l’autonomia del Turkistan orientale, esiliata negli Stati Uniti dopo essere finita in carcere con l’accusa di spionaggio, condannata nel 1999 a sei anni di reclusione e liberata nel 2005 in occasione dell’arrivo in Cina di Condoleezza Rice.

Nonostante le autorità abbiano tentato in ogni modo di nascondere gli effetti della crisi dello Xinjiang, i fatti del 5 e 6 luglio hanno avuto comunque un ampia risonanza, soprattutto tra quei Paesi che ospitano un significativo numero di esuli uiguri o che hanno forti affinità etnico culturali con la popolazione turcofona. In Turchia, dove il premier Recep Tayyip Erdogan ha addirittura parlato di genocidio, le scelte del governo sono state guidate dall’opinione pubblica e dai media che hanno raccolto ed amplificato le voci di una piazza arrabbiata e decisa ad appoggiare i fratelli musulmani. Determinante è stata la spinta del Partito per la giustizia e lo sviluppo, la formazione islamico-conservatrice di maggioranza che ha approfittato dell’occasione per rilanciare la Turchia nel suo ruolo di media potenza euroasiatica, un Paese guida che sembra destinato a svolgere una missione culturale, politica e religiosa in favore delle comunità turcofone di tutto il mondo.

Ad Ankara c’é però chi teme che la crisi possa avere ripercussioni anche nei rapporti commerciali con Pechino, relazioni che negli ultimi anni avevano fatto notevoli progressi e che alla fine di giugno, con la visita in Cina del presidente Abdullah Gul, invitato dallo stesso presidente Hu Jintao, erano arrivate al loro apice. Il 28 giugno, rivolgendosi agli studenti dell’università di Urumqi, il leader turco aveva parlato degli uiguri come del un ponte che unisce Ankara a Pechino, il legame di un’amicizia che nello Xinjiang si traduce in interessi economici a nove zeri. Secondo il giornale turco Hurriyet la delegazione che ha accompagnato il presidente Gul avrebbe infatti portato a casa contratti per tre miliardi di dollari e un accordo che prevede l’impegno della Chery Auto a costruire una fabbrica di auto in Turchia.

L’interesse e il modo nel quale in Turchia i media hanno seguito, sin dall’inizio, i fatti di Urumqi sembrano confermare che tra turchi ed uiguri il legame è molto più profondo del semplice rapporto inter-religioso. Mentre i commentatori parlavano di Turkestan orientale indipendente, Erdogan si diceva pronto a portare la questione di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “Uno Stato che minaccia la vita e i diritti dei civili non può garantire sicurezza e prosperità. Che siano uiguri o cinesi, non possiamo tollerare simili atrocità. La sofferenza del popolo uiguri è la nostra sofferenza”. Parole alle quali hanno subito fatto eco quelle del ministro dell’industria, Nihat Ergun, cha ha invitato le aziende e la popolazione di tutto il Paese a boicottare i prodotti cinesi, seguite da quelle del vice primo ministro, Bulent Arinc, che alla televisione ha ricordato i profondi legami storici che uniscono i due popoli ed ha parlato della grande comunità uiguri che oggi vive in Turchia.

Quella dello Xinjiang non può essere considerata una crisi periferica. Troppi gli interessi in ballo: gas naturale, petrolio, carbone, ferro, miniere ricche di materie prime; un tesoro inestimabile che serve a far funzionare l’immensa macchina industriale cinese. Una regione strategicamente importante, ponte naturale tra la Cina e l’Asia centrale ed autostrada degli oleodotti che dal Kazakistan arriveranno entro qualche anno a Shangai, vero cuore pulsante dell’industria cinese. Legato alla provincia di Taoyuan, dove vive una grande comunità uiguri, lo Xinjiang confina con regioni altrettanto turbolente, Tibet, Qinghai, Gansu, e con nazioni ritenute veri e propri focolai del fondamentalismo islamico d’impronta jihadista, il Pakistan e l’Afghanistan.

Una regione complessa quindi, con 19 milioni di abitanti, la metà dei quali uighuri; una regione che ora diventa teatro per il rilancio del Panturchismo, l’ideologia collegata all’idea turanica che alla fine del XIX secolo cercò di riunire, intorno ad un forte sentimento di comunanza delle origini, tutti i popoli turchi, i così detti Popoli turatici
, quelli che oggi abitano la Turchia, l’Azerbaijan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, il Tajikistan, il Kyrgyzstan, il Kazakhstan e il Turkistan orientale.