L’Occidente non capisce che il Ramadan è magia

di Francesco De Leo
da www.ilriformista.it


Appena la buia notte è rischiarata dalla prima falce di luna nuova, ha inizio un nuovo mese del calendario lunare. Il nono di questi ha, per gli islamici, il nome di Ramadan. Dura come gli altri, dai ventotto ai trenta giorni, ma è tanto diverso. Unico nel rappresentare la massima vicinanza tra Dio e l’individuo, è il momento di più elevata religiosità per l’uomo, vissuta nella massima unità sociale e familiare. Secondo la tradizione, fu proprio nel ventisettesimo giorno del Ramadan la laylat al-qadr, la Notte del Destino, in cui avvenne la rivelazione del Corano. «La Notte del Destino è migliore di mille mesi. In essa discendono gli angeli e lo Spirito, con il permesso del loro Signore, per fissare ogni decreto. È pace, fino al levarsi dell’alba».

Il Ramadan è mese di astinenza. Non solo dal cibo, dall’acqua, dal sesso – dalla prima luce dell’alba fino al tramonto del sole – ma anche astinenza della mente, costretta a guardarsi dai peccati dell’udito, della vista e della parola, ma soprattutto del cuore, che cerca di allontanare tutte le preoccupazioni della vita terrena e ogni pensiero, che non sia il ricordo di Allah.
Il digiuno obbligatorio è, comunque, quanto colpisce maggiormente noi occidentali. Il privarsi, durante le ore del giorno, di cibo, bevande, fumo e sesso è antitetico ai nostri desideri. «In Occidente c’è un immagine stereotipata del musulmano», scrive Khadija Antermite, su Dentro la moschea, il libro di Yahya Pallavicini, vice presidente della Comunità Islamica in Italia.

«Se lo sforzo fisico di certo non manca, si riceve un provvidenziale sostegno che rende l’astinenza dal cibo non solo del tutto sopportabile, ma un momento di benessere integrale per il corpo, l’anima e lo spirito. Il digiuno», prosegue Antermite, «corrisponde a una fase di rinascita di tutto l’essere umano e, non a caso, una rinascita molto simile a quella che caratterizza ogni donna durante la gravidanza. Più il bambino assorbe energie, rendendoti sempre più debole, più cresce in te una nuova vita». Il digiuno è quindi da intendersi solo come uno degli aspetti del Ramadan, mese, in verità, consacrato al controllo dei desideri.

Nelle famiglie islamiche in genere è la mamma che si alza per prima, sveglia tutti e serve il suhur, la colazione che viene consumata prima del sorgere del sole. Si mangia cibo nutriente, ma leggero e senza aggiunta di spezie, che potrebbero far venir sete durante la giornata. Alla fine del digiuno si beve subito dell’acqua o un succo di frutta, spesso di albicocca, e si mangiano un paio di datteri, come da abitudine del Profeta. Allo spuntino, chiamato iftar, segue una preghiera, il maghrib, dopo la quale si da inizio alla cena, solitamente gioiosa, a cui intervengono familiari, amici e anche sconosciuti. Questo per tutti i giorni del nono mese, sino all’id al-fitr, la festa della rottura del digiuno. È il secondo grande giorno di festa del calendario annuale, ci si scambiano doni, si cena tutti assieme e si fa visita a parenti e amici.


Ma quanto conosciamo in Italia, paese in cui vivono un milione e seicentomila musulmani, del Ramadan? «Credo che gli italiani sappiano abbastanza poco», ci dice Massimo Campanini, tra i più apprezzati storici del Vicino Oriente. «Sulle specificità e le caratteristiche del digiuno, uno dei cinque pilastri dell’Islam, credo ci sia una diffusa ignoranza. Si tende a banalizzarlo, a ironizzare sulle sue modalità, abbiamo un’idea folcloristica più che approfondita del suo significato».

Dopo le polemiche generate da alcuni datori di lavoro di Mantova, preoccupati per quei contadini musulmani che, rispettosi del Ramadan, avrebbero rischiato la disidratazione sui campi o per i dubbi di Mourinho alla vigilia del derby di Milano, si è dibattuto, anche da noi, sulle difficoltà di poter praticare la religione lontano dagli stati a maggioranza islamica. «Io non credo sia molto facile vivere il Ramadan in Italia», è l’opinione di Campanini. «Percepisco un senso di accerchiamento e di esclusione, in aggiunta ad irrisolti problemi logistici che vietano alla comunità, ancora oggi, la possibilità di vivere i momenti di grande socializzazione».

Yahya Pallavicini, imam della Moschea al-Wahid di Milano, ritiene invece «il mese di Ramadan, un momento dove la maggioranza dei musulmani in Italia riescono a ritrovare e a rivivere un atmosfera di orientamento spirituale che rafforza e riunisce le famiglie e di riflesso l’intera comunità». Dice soddisfatto al Riformista: «Ci sono manifestazioni che da un lato sembrano ricordare e richiamare quello che viene fatto anche nel resto del mondo a maggioranza islamica, ma dall’altro, proprio come minoranza, a volte non così riconosciuta, rispettata o conosciuta, il Ramadan e le sue benedizioni sembrano veramente rivitalizzare e rinnovare lo spirito autentico di solidarietà e di completazione spirituale, che riunisce i fedeli musulmani anche in Italia».


Ma fatti salvi i principi fondamentali, una religione come l’Islam, così in espansione in Occidente, può adattarsi alle esigenze delle nostre società? «Premesso che il digiuno del Ramadan sarà il digiuno del Ramadan fin quando l’Islam sarà Islam», sostiene lo storico della filosofia islamica Campanini, «credo che anche questa religione abbia degli spazi di flessibilità che potrebbero consentire, ai musulmani, di sottoporre alcuni principi ad una prassi di maggiore duttilità. Ricordo che il Corano dice: “Dio da voi vuole le cose facili, non il difficile”».

Sull’argomento un dibattito tradizionale c’è sempre stato nella comunità islamica, sostiene Pallavicini, «e da ben quattordici secoli». «Gli adeguamenti temporali e spaziali, del tempo e del luogo, sono sempre stati occasione di dibattiti e riflessioni intellettuali tra i sapienti e i teologi di ogni tempo e di ogni spazio», è la sua opinione. «L’Islam», per l’imam milanese, «ha sempre saputo cercare di rinnovare, senza riformare, la possibilità di accedere ai benefici spirituali dei riti e dei dogmi, adattandoli anche ai contesti che mutano, secondo il progresso del tempo e secondo le culture del luogo. Nessuna fissazione schematica», conclude Pallavicini, «ma neanche un riformismo privo di rispetto della natura e del simbolismo delle regole religiose. Il tutto, però, va perseguito tramite la concertazione dei sapienti, criterio che ha ispirato lo sviluppo di tutta la civiltà islamica dagli inizi e che noi ci auguriamo possa avvenire anche in Italia. Questo per evitare, che la comunità musulmana, possa essere messa alla mercé di predicatori impazziti e ignoranti o di rivoluzionari, che vogliano secolarizzare o ridicolizzare i principi sacri del nostro Islam».


Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire, è convinto che la conoscenza del Ramadan sia quanto mai utile alla nostra cultura. Dice al Riformista: «Ci sarebbe tanta magia nel Ramadan per noi occidentali… se solo ci sforzassimo di coglierla. Quando i musulmani ce lo spiegano e ce lo raccontano, in questa atmosfera che è un tutt’uno di riflessione e purificazione, nell’attesa delle ombre del tramonto, non fanno altro che riportare la nostra dimensione e la nostra ragione sentimentale a quella che abbiamo cancellato dalla nostra identità. Basterebbe solo specchiare il loro Ramadan alla nostra Quaresima, la loro milizia di ascesi e di preghiera alla nostra identità, legata al riferimento spirituale, per essere in grado di ri-svegliarci e ri-portarci alla condizione in cui tutto diventa comprensione.
Vedremmo nell’altro», prosegue Buttafuoco, «qualcuno che è uguale a noi. Specchiandoci nel loro, noi ritroveremmo noi stessi».

Pietrangelo Buttafuoco ci risponde telefonicamente dalla sua Sicilia. Le sue parole, a tratti, sono confuse con il vociare vivace dei bambini. Come definirebbe il Ramadan, se dovesse spiegarlo a loro? «È innanzitutto… una lenta preparazione ad un’esplosione di gioia. È simile ai dieci gradi di obb
edienza, negli ultimi dei quali respiri una libertà simile a quella degli Dei». Ramadan karìm.