Se questa è un’occupazione

di Francesca Borri
da www.peacereporter.net

Un gruppo di giuristi spiega come il dominio israeliano sui palestinesi sia degenerato in colonialismo e apartheid

Nel gennaio del 2007 John Dugard, relatore delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori Palestinesi, arrivò alla conclusione che probabilmente “alcuni elementi dell’occupazione costituiscono forme di colonialismo e apartheid”. Sette giuristi, guidati da Virginia Tilley, hanno raccolto quel dubbio per argomentarlo in convinzione, in trecento pagine e due anni di ricerca – e arresti e espulsioni e intimidazioni di ogni tipo per chiunque abbia minimamente collaborato: “l’occupazione israeliana è diventata un’iniziativa coloniale che attua un sistema di apartheid”.

Una lesione di valori fondamentali

Un’occupazione militare, in sé, non è illegale. Ma è concepita come un regime temporaneo. Dopo quarant’anni, dunque, l’ampiezza e varietà e soprattutto sistematicità delle violazioni israeliane del diritto internazionale, che disciplina l’occupazione in particolare attraverso la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, autorizzano una certa diffidenza sui reali obiettivi di Israele. Contrariamente all’occupazione, infatti, sia il colonialismo sia l’apartheid sono rigorosamente proibiti, a presidio di due pilastri delle attuali relazioni internazionali: il principio di autodeterminazione dei popoli e il divieto di discriminazione razziale. Per loro intrinseca natura, inoltre, colonialismo e apartheid non possono che consistere in pratiche istituzionalizzate di oppressione: non si è davanti a crimini individuali e isolati, ma al coinvolgimento di intere società. Se nel diritto internazionale, normalmente, solo lo stato che subisce una violazione è legittimato a reagire, la gravità di simili fenomeni giustifica allora un’eccezione: siamo nell’ambito dello jus cogens: norme cioè non solo inderogabili, ma la cui violazione genera precisi obblighi e responsabilità per tutti gli stati, in quanto è l’intera comunità internazionale a essere lesa nei suoi valori fondamentali – non solo il popolo palestinese.

Cosa significa colonialismo

Il diritto internazionale non ha una definizione vincolante di colonialismo. Il riferimento è ancora oggi la Dichiarazione sulla Concessione dell’Indipendenza ai Paesi e Popoli Coloniali, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite negli anni dei movimenti di liberazione nazionale: era il 1960: si ha colonialismo quando “gli atti di uno stato hanno come effetto complessivo l’annessione, o comunque il controllo illegale di un territorio, con l’intento di negare alla popolazione locale il diritto all’autodeterminazione”. Neppure del diritto all’autodeterminazione, richiamato già al primo articolo della Carta delle Nazioni Unite e considerato il diritto dei diritti, preliminare cioè per il godimento di tutti gli altri, si ha in realtà una definizione certa: è una nozione politica, legata al governo di un territorio, ma ha dimensioni anche economiche, sociali, culturali – il diritto a decidere liberamente il proprio futuro.

In questo senso, la natura coloniale dell’occupazione israeliana traspare da cinque distinte pratiche:
· In primo luogo, la violazione dell’integrità dei territori palestinesi. Attraverso l’annessione di Gerusalemme Est, ma anche la frantumazione generata dagli insediamenti e le relative infrastrutture, funzionale a ulteriori forme di annessione: nel piano sul cosiddetto disimpegno da Gaza si specifica esplicitamente che, “nella West Bank, al contrario, alcune aree saranno in futuro parte di Israele”.
· In secondo luogo, la privazione della popolazione controllata della capacità di autogoverno. Gli accordi di Oslo non hanno diminuito, ma semplicemente riformulato il ruolo israeliano: è sufficiente ricordare il potere di veto su tutta la legislazione adottata dall’Autorità Palestinese – già limitata alle esigue aree A. E l’autogoverno si può sempre scardinare con mezzi meno sottili: attualmente, un terzo dei deputati palestinesi è in carcere.
· Ancora, l’integrazione, e subordinazione dell’economia dei territori controllati alla propria economia. Ottenuta con l’indirizzamento della manodopera palestinese verso i settori meno qualificati dell’industria israeliana, ma soprattutto la fusione delle infrastrutture e l’istituzione di una unione doganale – il diritto internazionale vieta interventi destinati ad avere impatto duraturo, se non permanente, sui territori occupati.
· La dimensione economica dell’autodeterminazione ricomprende anche la sovranità sulle risorse naturali. Ma il 40 percento della terra palestinese è sottratto dagli insediamenti – in uno spazio che è già solo il 22 percento del vecchio mandato britannico. E per quanto riguarda l’acqua, l’iniquità del sistema di gestione e distribuzione è compendiata dalle differenze nel consumo, per gli israeliani cinque volte superiore.
· Infine, una componente culturale dell’autodeterminazione, come diritto di un popolo a esprimere e sviluppare libero la propria cultura. Niente, qui, racconta meglio la politica israeliana che l’ebraicizzazione della geografia e della storia del paese. Il lungo elenco dei libri che per imprecisate ragioni di sicurezza è vietato importare nei Territori Palestinesi comincia dai manuali di grammatica araba.
Le violazioni del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese si rivelano così non accidentali, ma sistematiche e organiche: con l’effetto complessivo di un saldo controllo del territorio, e in alcuni casi la sua diretta annessione.

Cosa significa apartheid

Il principale ostacolo per un uso tecnico del termine apartheid, fino a oggi, è stato il concetto di razza. Israeliani e palestinesi, si è detto, non appartengono certo a razze diverse: il trattamento riservato ai palestinesi, sostiene Israele, non è una forma di discriminazione, ma di differenziazione sulla base della cittadinanza – perfettamente lecita per il diritto internazionale. Richiamando la giurisprudenza dei tribunali per la ex Jugoslavia e il Ruanda, relativa a guerre civili, con la necessità dunque di classificare e distinguere i vari attori coinvolti, l’idea di razza è qui liberata di ogni substrato biologico e pretesa scientifica: non è che la costruzione sociale con cui il gruppo dominante si differenzia dalla popolazione controllata, al fine di mantenerla nell’emarginazione politica e subordinazione economica – questione non di anagrafe, cioè, ma di relazioni di dominio e potere. Nella stessa Convenzione sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale, del 1965, la razza si ritrova inclusa tra diverse identità di gruppo che possono fondare una discriminazione definita genericamente come, appunto, razziale – insieme al colore, l’etnia, la nazionalità: l’importante è l’ineguaglianza nel riconoscimento o godimento delle libertà fondamentali. La giustificazione relativa alla cittadinanza, allora, non si rivela che tautologia: perché possono essere cittadini israeliani solo gli ebrei: il trattamento riservato ai non israeliani, in realtà, è il trattamento riservato ai non ebrei.

La nozione di apartheid è ricavata dalla combinazione tra la Convenzione sulla Soppressione e Punizione del Crimine di Apartheid, del 1976, e il più recente Statuto della Corte Penale Internazionale: “atti disumani compiuti nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione di un gruppo razziale”. La Convenzione sull’Apartheid elenca sei categorie di “atti disumani” – ma con valore esemplificativo, non esaustivo: l’importante, ancora, è “non l’effetto, ma l’intento di mantenere il dominio razziale”: non bisogna solo verificare che simili atti siano oggettivamente compiuti, ma anche che siano compiuti su base discriminatoria, mirando cioè specificamente ai palestinesi.

Nell’occupazione israeliana si ritrovano quattro delle sei categorie:

· La negazione del diritto alla vita e alla libertà. Esecuzioni
extragiudiziali, tortura, detenzione amministrativa, arresti arbitrari, assenza dei più basilari requisiti del giusto processo, a partire dalla presunzione di innocenza: tutto questo si configura come discriminazione razziale, e non solo come violazione dei diritti umani, in virtù della coesistenza di due distinti sistemi giudiziari: l’applicazione della legge, infatti, avviene su base personale, non territoriale – per cui, per uno stesso omicidio, un palestinese sarà punito fino all’ergastolo, e da un tribunale militare, fino a vent’anni invece un israeliano, giudicato da un tribunale civile.
· Misure miranti a impedire a un certo gruppo la partecipazione alla vita politica, economica, sociale e culturale del paese. Qui il ruolo essenziale è quello delle restrizioni alla libertà di movimento, fisiche e amministrative – e imposte esclusivamente ai palestinesi. Non si ha infatti solo l’ostacolo visibile del cemento di insediamenti, checkpoint muri, ma anche un insieme instabile e confuso, e più insidioso, di oltre duemila ordinanze militari -scritte in ebraico e spesso neppure rese pubbliche, e che disciplinano ogni cosa, dalle modalità di arresto alle verdure coltivabili. Dalla salute al lavoro all’istruzione – quella che viene minata, in realtà, come sottolinea la Banca Mondiale, è la prevedibilità e organizzabilità delle relazioni economiche e sociali.
· La divisione della popolazione lungo linee razziali. I territori occupati sono oggi ripartiti in una molteplicità di aree distinte, in cui l’accesso dipende dall’identità individuale, con zone riservate agli israeliani e zone riservate ai palestinesi. Anche se i matrimoni misti non sono vietati, inoltre, l’obbligo di cerimonia religiosa per gli ebrei e i vincoli in materia di residenza costringono di fatto alla separazione o all’illegalità.
· Infine, la persecuzione degli oppositori politici. Mediante intimidazioni arresti, espulsioni, assassinii.

Similitudini

Ed è in particolare la Corte Suprema, che di sentenza in sentenza condona e sostiene ogni illegalità, ad istituzionalizzare le discriminazioni, convertendole in apartheid. La somiglianza con il sistema sudafricano è innegabile. Prima le norme sulla cittadinanza, cioè la creazione legislativa di identità distinte e impermeabili le une alle altre, per accordare a una di queste identità, quella bianca in Sudafrica e quella ebraica in Israele, status giuridico preferenziale e benefici materiali. Poi la ripartizione della popolazione in aree separate, ognuna riservata a un gruppo a esclusione dell’altro, per garantire il controllo da parte del gruppo dominante: attraverso gli insediamenti e le loro infrastrutture e le restrizioni alla libertà di movimento, in Israele, esattamente come in Sudafrica mediante i Bantustan – propagandati all’epoca come stati in cui le varie etnie nere avrebbero potuto governarsi in autonomia: è oggi la retorica di Oslo. L’instaurazione di regimi amici, in fondo, è per un occupante il modo più immediato per liberarsi degli obblighi che il diritto internazionale gli impone: la Quarta Convenzione di Ginevra, non a caso, dichiara indisponibili e inderogabili i diritti che attribuisce: accordi che ratificano e convalidano sue violazioni sono semplicemente nulli.

Le responsabilità

Israele ha l’obbligo di cessare immediatamente ogni sua attività illegale, di smantellare istituzioni e strutture di natura coloniale e discriminatoria, e risarcire il danno offrendo giusta compensazione per quanto inflitto – e naturalmente, ha l’obbligo di consentire al popolo palestinese di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. Ma in quanto norme di jus cogens, le prescrizioni in materia di colonialismo e apartheid generano responsabilità per l’intera comunità internazionale. L’obbligo è per tutti duplice, in forma di cooperazione ma anche astensione: ogni stato è tenuto infatti a cooperare perché le violazioni abbiano fine, per esempio mediante l’adozione di sanzioni, ma anche ad astenersi dal riconoscere quanto di fatto deriva dalle violazioni, come l’annessione di Gerusalemme Est, e dal fornire assistenza e sostegno – l’Unione Europea è invece il principale partner commerciale di Israele, armi incluse: e le sue uniche sanzioni non hanno colpito che i palestinesi, colpevoli di avere democraticamente votato Hamas. Naturalmente è anche possibile delegare la reazione a organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite: ma l’assenza di capacità o di volontà di intervento da parte di queste organizzazioni non esonera i singoli stati dall’adempimento dei propri obblighi – non è sufficiente, cioè, trincerarsi ogni volta dietro il veto americano in Consiglio di Sicurezza.

Che fare?

La proposta conclusiva è dunque chiedere, attraverso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia, perché stabilisca se le politiche e pratiche israeliane violano le norme che proibiscono il colonialismo e l’apartheid. Si tratta di semplici pareri, non di sentenze, e di pareri neppure vincolanti: e tuttavia formulati nel linguaggio tendenzialmente tecnico e neutro del diritto internazionale – il solo possibile in anni e contesti in cui ogni opinione critica è delegittimata dall’accusa di antisemitismo e terrorismo. Il rapporto non affronta la questione delle responsabilità individuali, concentrandosi sulle responsabilità di Israele come stato, secondo l’approccio tradizionale del diritto internazionale: ma oggi esiste anche una Corte Penale Internazionale – di cui Israele naturalmente non ha ratificato lo statuto: e la Corte può intervenire, esclusa l’ipotesi del tutto irrealistica di una richiesta del Consiglio di Sicurezza, solo se lo statuto è stato ratificato dallo stato a cui appartiene il presunto colpevole o la vittima. L’Autorità Palestinese, dopo l’ultimo attacco contro Gaza, ha però chiesto di ratificare lo statuto: e la sua domanda è in questi mesi all’esame della Corte, in quanto l’ammissione è riservata agli stati – e formalmente non esiste alcuno stato palestinese. Secondo Antonio Cassese, senza il cui lavoro la Corte sarebbe ancora solo una pagina di Kant, chi si occupa di diritto internazionale ha spesso la sensazione di dipingere nature morte sulle pareti di una nave che affonda: generalmente, i giuristi addebitano agli stati la difficoltà di convertire le definizioni in incriminazioni – per una volta, l’opportunità di smentirsi è adesso nelle loro stesse mani.